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«Perché quello che oggi è vero può non esserlo dom
«L’inverno Titì se lo portava dentro. In quell’istante gli sembrò perfino che il freddo fosse più pungente nel suo corpo che fuori, per strada. Forse per questo non batteva più i denti, aveva pensato. Ormai non era che un unico blocco di ghiaccio, come l’acqua nei canaletti lungo i marciapiedi. […] Si alzò a fatica, trascinandosi fino alla fine del binario. Sgusciò dietro la fila di sedili di plastica, si sdraiò su un fianco, il verso il muro, poi si tirò il bavero del cappotto sulla testa e chiuse gli occhi. L’inverno che aveva dentro se lo portò via.» p. 11-12
La morte di Titì per Rico è il punto di non ritorno, la fine. Titì rappresentava il suo ultimo vero amico, l’ultimo appiglio che lo teneva legato a quella vita senza senso e senza un perché che aveva avuto inizio già prima della sua ultima esistenza, quella in strada. Perché allora restare a Parigi? Se proprio deve morire, si dice Rico, tanto vale farlo al caldo in quel luogo, Marsiglia, che rappresenta i suoi sogni giovanili, i ricordi di un amore che è un episodio del passato che ancora può scaldargli il cuore.
Perché a Rico restano soltanto i ricordi. I ricordi di quel matrimonio con Sophie, la moglie, finito male, di quel figlio con lei avuto, Julien, che stenta a guardarlo e ancora meno a riconoscerlo come padre, i ricordi dei salti mortali al lavoro perché la sua compagna meritava il meglio. Eppure, non è bastato. Da qui l’uomo torna a Léa, alla sua giovinezza, da qui decide di mettersi in viaggio incontrando tante anime come lui. Perché Rico è soltanto alla ricerca di un po’ d’amore. Un amore che dia senso ai suoi giorni. E in questo girovagare incontra Malika, Julie, Mirjana e ancora Dedè e Abdou. Piccoli sprazzi di luce che riescono ad illuminare la sua via prima il buio sopraggiunga, prima che il freddo prenda possesso di lui. Di lui che non è altro che un barbone, etichettato come ubriacone e violento, etichettato come feccia. Di fatto, dimenticato. Perché nessuno si è mai chiesto perché il bere sia così importante quando dalla mattina devi arrivare alla sera. Perché nessuno si accorge di quelle ombre che giacciono agli angoli. Loro sono il sole, un sole freddo. Il sole dei morenti.
«Quando si beccano un sacco di botte non si è più come prima. Non si sentono più le cose nello stesso modo. Non si reagisce più come gli altri. […] Il male è irreale. È come l’inferno: finché non sei sulla graticola non puoi immaginarlo.» p. 190
Questo e molto molto altro ancora è “Il sole dei morenti” di Jean-Claude Izzo. Un libro duro, forte, pungente, introspettivo, profondo. Un romanzo che descrive la società, che descrive la condizione umana e sociale, un romanzo che semplicemente narra di una circostanza in cui chiunque, per svariate e molteplici ragioni, può trovarsi. E allora nulla è più come prima, alcunché ha ancora i medesimi sapori, odori. Si perde lo scopo dell’alzarsi al sorgere del sole, dell’andare al lavoro, dell’essere. Ci si scorda chi si è semplicemente perché non siamo più quel che eravamo, siamo altro. E c’è chi come Titì si rifugia nelle parole scritte, facendo proprie le storie che legge e chi invece come Rico fa proprio il ricordo. Ma a prescindere, il risultato non cambia.
Izzo è venuto a mancare troppo presto, ma ci ha fatto tanti regali con le sue opere. “Il sole dei morenti” è sicuramente il più bel lascito che poteva lasciarci, il distacco dalla sua penna non poteva che avvenire con questo. L’ho rimandato e rimandato ancora proprio perché sapevo che sarebbe stato il punto a un lungo percorso. Poi, è arrivato il momento. Ed è stato dolore. Ed è stato un amore indimenticabile.
“Il sole dei morenti” è un testo articolato, attuale, ricco di spunti di riflessione, che tocca le corde più intime e che ti rimane dentro. Accarezza la tua anima e ne affresca nuove tonalità. Imperdibile.
«Io l’avevo guardato. Il mio fratello maggiore di Marsiglia. Non eravamo mai sulla stessa lunghezza d’onda. Eravamo come in due campi diversi, non nemici ma… stranieri, eppure parlavamo la stessa lingua. Perché?» p. 206
«Si crede sempre che i sogni siano più belli della realtà» p. 227
«Adesso il sole era alto nel cielo.
Un sole bianco. Freddo.
Il sole dei morenti, ho pensato.
Il sole dei morenti.
Ho fatto scivolare la mia mano in quella di Rico. Intrecciando le mie dita alle sue. E ho aspettato.
Ho aspettato, sapete.
Perché, mi sono detto, questa vita non può continuare così.
Non può» p. 232
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