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Il coraggio e l'impotenza
Di fronte ai leoni senza testa di Micene, guardiani consumati del tempo, sulle rovine macerate di un rocca inespugnabile, passo dopo passo su un tappeto di porpora e sangue, sotto un cielo smaltato e indifferente, atrocemente silenzioso, Cassandra, la profetessa, va incontro alla morte. Il tempo che la separa dalla fine e dalla luce della liberazione, diventa la materia malleabile e consistente per un lungo monologo, liquido e sussurrato, a ripercorrere l’inizio della fine, il ratto di Elena, la caduta di Troia, la partenza di Enea. E la memoria di Cassandra ci si dispiega davanti con la sua cocciuta irrequietezza, col suo moto ribelle e odissiaco, la malinconia e la tristezza, il coraggio e l’incoercibile solitudine cui le sue visioni la costringono. Nei suoi ricordi, nel suo dialogo postumo con gli uomini e le donne della sua terra e della sua giovinezza, prima che Troia fosse bagnata di sangue, prima che la cecità e la paura prendessero il sopravvento sulla ragione, Cassandra consegna la sua commovente fragilità al lettore, in una demistificazione del mito che non è solo parodia e sarcasmo, ma l’occasione per ritrovare le radici intime di quello che è stato e forse la ricerca di una palingenesi semplice e sofferta.
Il tema portante di questa Cassandra è il conflitto fra maschile e femminile, il tramonto del matriarcato e la presa di potere degli uomini, con la loro incoercibile violenza, con la dialettica fallica del sillogismo e dei principi di identità e non contraddizione. In questo maschile che non conosce il correttivo dell’apertura e della comprensione, nessun uomo si salva: né Agamennone, che sessualmente impotente, sfoga la sua rabbia con la violenza, né Paride che nella sua bellezza trascina il suo popolo in una guerra lacerante, né Achille, che anzi è l’emblema della bestialità più cruda, né Ettore o Priamo. E quella Elena per il cui tragico splendore questa guerra si è combattuta, null’altro è che un fantasma forse disperso in Egitto, così che la ragione ultima del conflitto evapora nell’inconsistenza nebbiosa di un ectoplasma, in un significativo svuotamento di senso di ogni lotta armata. A questo principio maschile si piegano anche le donne del libro, Polissena che si prostituisce per sopravvivere nel campo nemico, Pentesilea, l’amazzone che accecata dal fuoco della vendetta, combatte come una furia in battaglia e le varie serve e donne che via via appaiono. E quando la guerra costringerà gli uomini all’azione, quando la reggia di Priamo diventerà una dispotica e distopica fortezza di sospetti, spie e inganni, militarizzata dalla sete di potere di Eumelo (prefigurazione drammatica della DDR in piena guerra fredda), resterà un porto sicuro per Cassandra la comunità che Anchise, padre di Enea, ha fondato poco fuori della città. Lì, in quella oasi di pace, oltre la dicotomia tra uccidere o morire, la strada scelta è quella della vita, con le donne e gli uomini che intrecciano cesti di vimine, reti, legami e nodi per difendersi dalla grandine delle cose. E qui, dove la materia fisica si fa occasione di resistenza contro il mondo, Cassandra matura consapevolezza delle scelte che l’hanno portata a essere profetessa, pur non potendo essere creduta da nessuno. Perché nel regno del maschio, Cassandra sceglie di parlare con la propria voce. E non è un caso che questo dono-anatema le viene proprio dal rifiuto di giacere con Apollo, da una violenza mancata dell’uomo sulla donna.
Christa Wolf ci consegna un libro difficile nello stile, ondivago, ellittico, sfuggente, fluido e opaco, una scrittura cui ci si abitua poco a poco e che alla fine diventa perfetto nel segreto incanto che gelosamente custodisce. Il mito diventa l’occasione per una accorata riflessione sulla sostanza ostinata che tiene legato l’uomo alla vita, sulla distorsione della verità quando la guerra scardina la logica delle cose, sulla resistenza della donna e la violenza dell’uomo, sull’assoluta arbitrarietà del potere, ma anche sulla malinconica impossibilità dell’amore. Perché Enea, l’unico uomo che si salva, l’unico capace di dimostrare sensibilità e rispetto per le donne (significativa la sua astensione della sverginamento rituale), deve seguire il suo destino, deve essere un eroe, fondare Roma e forse una nuova civiltà. E Cassandra, che pure lo ama, non lo può seguire. Il suo destino è la scure di Clitemnestra, la donna che in realtà non è donna, come ci avverte Eschilo nell’Agamennone, sulle porte di Micene. E a chiudere il cerchio narrativo, di nuovo dinnanzi ai leoni, a tremila anni di distanza, Cassandra cammina verso la fine, i suoi passi rimbombano sotto la volta vuota e cupa del cielo, senza Dio, senza voce, mentre il vento indifferente spira su queste pagine, che portano ancora con loro il sapore di salsedine del Mediterraneo.
Letto tre volte, profondamente amato.
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