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IL PREZZO DELLA COLPA
Il canto del cigno “perfetto” di Philip Roth avrebbe ben potuto essere, nel 2006, “Everyman”, un libro “capace – citando le parole di Corrado Augias – di toccare le profondità ultime della vita e della morte”. Rileggendole, le parole di Roth riferite al destino del suo protagonista (“Non esisteva più, era stato liberato dal peso di esistere, era entrato nel nulla senza nemmeno saperlo. Proprio come aveva temuto dal principio.”) sembrano quasi profetiche al pensiero della recente morte dello scrittore americano. Invece Roth ha voluto dare il definitivo addio alla scrittura con un altro romanzo, “Nemesi”, apparentemente meno personale e autobiografico (a parte la consueta ambientazione nella città natale di Newark). Confesso di avere sempre avuto un debole per gli autori capaci di dare l’addio alle scene in bellezza, prima che il declino anagrafico si trasformasse inesorabilmente in malinconico declino artistico. Per fare un solo esempio, da genovese quale sono ho provato un grande rispetto, se non addirittura una incondizionata ammirazione, per Ivano Fossati quando ha deciso di congedarsi definitivamente dalla musica con un disco bello e profondo come “Decadancing”. E per lo stesso motivo ho gioito quando ho potuto constatare che, per fortuna, “Nemesi” è un romanzo inferiore ai suoi capolavori della fine del secolo scorso solo, forse, per numero di pagine, ma non certo per intensità e qualità di scrittura.
Il pregio di Roth per me è sempre stato quello di coniugare una estrema semplicità narrativa con una altrettanto evidente complessità tematica, tale da far sì che i personaggi dei suoi libri, con le loro singolari e spesso paradossali vicissitudini, assurgessero sempre a emblemi di una condizione umana universale. Quando racconta di Bucky Cantor, il giovane protagonista che nella torrida estate del 1944 si trova ad affrontare le tremende conseguenze di una virulenta epidemia di poliomelite che sconvolge la città di Newark, Roth fa sì l’affresco di un mondo e di un’epoca a lui familiari (dal momento che ritornano ossessivamente in molte sue opere), ma allo stesso tempo apre il romanzo a prospettive assai più ampie. Lo scrittore del New Jersey, anche se accusato da alcuni critici di scrivere sempre le stesse storie (è emblematica la posizione espressa da Carmen Callil la quale, dopo che a Roth era stato assegnato nel 2011 il prestigioso Man Booker Prize, aveva polemicamente affermato: “Continua a parlare dello stesso argomento in quasi tutti i suoi libri, è come se fosse seduto sul tuo viso non lasciandoti respirare.”), non era uno che amava guardarsi l’ombelico, anzi nel corso della sua carriera non ha esitato ad affrontare la distopia (“Il complotto contro l’America”) o l’allegoria politica (la “Trilogia americana”). Dei suoi libri “Il complotto contro l’America” è forse quello che più si avvicina a “Nemesi”, sia per il periodo storico (gli anni dell’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale) sia per l’ambientazione (il quartiere ebraico di Weequahic). Non so dire se, come nel romanzo precedente, lo spunto narrativo sia inventato, quello che conta è però che esso è del tutto verosimile. Anche se per la mia generazione la poliomelite è stata niente di più che una malattia di cui conosceva solo vagamente il significato, in quanto i moderni vaccini l’avevano per fortuna relegata (come il tifo, la difterite o il vaiolo) a un passato ormai lontano e superato, per coloro che erano nati negli anni ’20 e ’30 essa ha avuto infatti un ruolo per nulla secondario, anche se magari solo a livello psicologico, nelle loro biografie. Ricordo ad esempio che quando ero bambino veniva raccontata spesso a scuola la storia di Wilma Rudolph, la “gazzella nera” che nel 1960 aveva vinto tre medaglie d’oro alle Olimpiadi di Roma dopo che nella sua infanzia era stata vittima, come tanti altri suoi coetanei, della polio.
Nel romanzo di Roth l’epidemia che sconvolge Newark è contemporanea all’entrata in guerra degli Stati Uniti. Viene perciò naturale la tentazione di leggere “Nemesi” come una allegoria, con il virus della malattia a simboleggiare un nemico assai meno invisibile. In effetti “Nemesi” ricorda per molti versi “La peste” di Camus: con la sua calma, la sua ponderazione e la sua ragionevolezza Bucky all’inizio sembra addirittura una nuova versione del dottor Rieux. L’analogia non va però molto più in là di una certa somiglianza di atmosfera. Certo, in alcune pagine fa capolino persino l’antisemitismo, quando un gruppo di teppisti italiani fa irruzione nel campo giochi sorvegliato da Bucky con l’intento provocatorio di portare la polio tra gli ebrei, oppure quando si paventa di mettere in quarantena l’intero quartiere ebraico di Weequahic, trasformandolo di fatto in un ghetto chiuso, e questi semplici accenni a un’intolleranza mai del tutto sopita anche nei democraticissimi Stati Uniti fa scorrere qualche brivido lungo la schiena. Ma quello che preme di più a Roth è raccontare il grande dilemma morale in cui si trova invischiato il protagonista, il quale all’inizio del libro ci viene presentato come l’eroe positivo per eccellenza. Istruttore di educazione fisica ed educatore di un campo giochi estivo, venerato dai ragazzi e rispettato dagli adulti per la sua integrità, la sua dedizione al lavoro, il suo senso del dovere e il suo patriottismo, Bucky Cantor rappresenta l’ideale dell’uomo medio americano, che non si crogiola mai nelle sue sfortune (è stato allevato dai nonni, in quanto la madre è morta al momento del parto e il padre è sparito dopo essere finito in prigione per furto), ma si adopera indefessamente per farsi largo nella vita ed uscire con onore da ogni situazione. Quando scoppia l’epidemia, Bucky si impegna a lottare contro la polio come un soldato, lui che dall’esercito è stato esonerato a causa dei suoi problemi di vista. La malattia che colpisce alcuni suoi ragazzi lo prostra come se si trattasse della morte di un commilitone in battaglia, ma la sua missione, nonostante egli possa fare ben poco per contrastare il dilagare del virus, è sempre quella di prestare conforto, dare sicurezza, lanciare inviti a non farsi prendere dal panico ed essere vicino a chi soffre. Quando la fidanzata Marcia lo convince a partire alla volta di Indian Hill, un campeggio estivo nelle salubri Pocono Mountains dove è chiamato a sostituire un educatore chiamato sotto le armi, Bucky vive il suo trasferimento come una forma di diserzione, una vergogna che neppure il profondo amore per la ragazza riesce del tutto a mitigare. Gli sviluppi della storia metteranno non solo in discussione i tetragoni valori del protagonista, ma addirittura lo condurranno a un esito imprevedibilmente tragico.
Viene da chiedersi a questo punto a cosa si riferisca la nemesi del titolo, una parola che richiama tragedie greche come “Le baccanti” di Euripide o “I Persiani” di Eschilo, oppure ancora antichi miti come quelli di Sisifo e di Prometeo. La nemesi non è qui, come potrebbe apparire a prima vista, la vendetta di Dio che punisce Bucky Cantor per essere improvvidamente assurto a eroe agli occhi della gente o per avere goduto immeritatamente di salute, amore e successo; essa è piuttosto la punizione che il protagonista infligge a se stesso per una colpa che non esiste e che lui certamente non ha commesso, ma che la sua esacerbata coscienza gli fa sentire come un’onta imperdonabile (quella di non aver saputo proteggere i “suoi” ragazzi prima, e averli addirittura involontariamente contagiati poi), fino al sacrificio supremo di condannarsi a una vita di solitudine e di rimorsi. Il suo ipertrofico senso di responsabilità, il suo voler essere un granitico uomo tutto d’un pezzo, fanno sì che Bucky si sostituisca a Marcia nel decidere in sua vece che rinunciare a lui, ridotto alla condizione di invalido, sia la cosa migliore per la felicità futura della ragazza, con ciò comminando a se stesso, come un novello Prometeo che si incatena da solo alla rupe del suo sconforto per farsi dilaniare il fegato dai suoi crudeli sensi di colpa, il più tremendo dei castighi, ossia la rinuncia all’amore (e più in generale al rispetto per se stesso, lui che prima era così virilmente fiero ed ora si sente un mezzo uomo, uno storpio il cui unico sentimento è rimasto l’odio per l’altrui commiserazione). Come acutamente osserva il narratore, Bucky Cantor si sostituisce addirittura a Dio nel prendersi la colpa di ciò che è accaduto, anzi si trasforma egli stesso nel tanto vituperato Dio che fa soffrire senza motivo i bambini innocenti. E’ questo il suo vero peccato, la sua hybris, non quello di essere stato un inconsapevole untore; ed è questo che rende Bucky Cantor un personaggio al tempo stesso detestabile e commovente, autenticamente tragico nella sua assoluta, maniacale disperazione (Roth dice di lui che “pareva che avesse vissuto su questa terra settemila anni di vergogna”). In Bucky si esprime tutto il profondo pessimismo dell’autore, quel pessimismo onnipresente che spesso in passato veniva celato dietro la maschera dell’ironia e della provocazione grottesca. La felicità per Roth non è evidentemente la condizione normale per gli esseri umani, e davanti ai nostri occhi Bucky Cantor appare come l’ultimo di una lunga galleria di anti-eroi americani segnati dal marchio della sconfitta (lo Svedese di “Pastorale americana”, l’Ira Ringold di “Ho sposato un comunista”, il Coleman Silk de “La macchia umana”). Anche se Roth nelle sue opere si è spesso “nascosto” dietro a dei narratori esterni (come nel caso della “Trilogia americana” con Zuckerman, anche in “Nemesi” la vicenda viene infatti raccontata da un testimone dei fatti che ha raccolto anni dopo le confidenze del protagonista), con ciò generando volutamente una sorta di raffreddamento emotivo delle sue storie, i personaggi rothiani hanno sempre saputo ritagliarsi un rapporto di empatia con il lettore, dimostrando di essere, pur nell’essenzialità dello stile o, nei suoi ultimi romanzi, nella concisione del racconto, ricchi di molteplici sfaccettature e sottigliezze psicologiche. La fine (prima quella artistica e poi, ineluttabilmente, quella fisica) di Philip Roth ci ha resi tutti tristemente consapevoli di come questi personaggi ci siano entrati profondamente nella carne e di quanto ci mancheranno negli anni a venire.
Indicazioni utili
"Pastorale americana" di Philip Roth
"La peste" di Albert Camus
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