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LO SCACCO DELLA COSCIENZA
“Io ammetto che due più due quattro è una cosa eccellente, ma se bisogna dare a ciascuno il suo, ebbene, anche due più due cinque qualche volta può essere una cosuccia graziosissima”
Pur non essendo mai stato un filosofo o un pensatore nel senso letterale del termine, Dostojevskij vanta un indiscutibile diritto di cittadinanza nell’area dell’esistenzialismo moderno. I motivi di questa parentela spirituale si possono trovare in tutte le opere maggiori del grande scrittore russo, i temi dominanti delle quali sono appunto la problematicità dell’essere umano, la percezione del carattere precario dell’esistenza, l’insofferenza per ogni costruzione astrattamente intellettualistica, l’irrazionalismo. Dostojevskij si è sempre battuto per rivendicare il valore imprescindibile e irrinunciabile della personalità umana contro ogni tentativo di ridurre il mondo a vuote formule speculative (fossero esse materialiste o misticheggianti), e di questa lotta le “Memorie del sottosuolo” sono, se non il punto più elevato della sua creazione artistica, sicuramente l’opera in cui la polemica anti-razionalistica dell’autore si è espressa in maniera più dura e diretta.
E’ curioso (ma non inspiegabile, come vedremo più avanti) che alfiere di questa ambiziosa contro-ideologia sia un personaggio totalmente, sconsolatamente negativo. “Io sono un uomo malato – si legge, non senza un certo imbarazzato stupore, in apertura di romanzo -, sono un uomo cattivo. Sono un uomo che non ha nulla di attraente”: è una presentazione-confessione masochisticamente sincera, ma ancor più una dichiarazione di principio, con cui Dostojevskij prende le distanze da tutta la letteratura idealizzante che trasforma instancabilmente l’animale uomo in un sublime eroe, e ne scoperchia invece il fondo più meschino e antieroico. Il sottosuolo in cui si muove, pensa e agisce il protagonista è, prima ancora che un ambiente reale e riconoscibile, quel luogo interiore, presente in ognuno di noi, in cui regna l’irrazionale, l’arbitrario, il libito. Come farà più tardi la psicanalisi, Dostojevskij penetra in questa regione inesplorata, scoprendovi il disordine, il caos e la contraddizione. L’uomo del sottosuolo, così, è colui che non si illude di poter soffocare, nascondendola a se stesso e agli altri, questa zona oscura di sé, ma le si abbandona con tragica e sofferta voluttà.
Il sottosuolo non è una scelta, sia pur dolorosa, ma lo stadio estremo di un itinerario psichico che, originato da una naturale aspirazione alla normalità, cioè dal tentativo di inserirsi costruttivamente nella realtà, di armonizzarsi con i propri simili e di espellere da sé antinomie e contrasti, giunge alla graduale consapevolezza che tutto ciò è impossibile e illusorio. A rendere vani questi sforzi e a sprofondare l’uomo nel sottosuolo è una morbosa condizione che Dostojevskij definisce “sviluppo ipertrofico della coscienza”: “Vi giuro, signori miei, che avere una coscienza troppo lucida è una malattia, una vera malattia nel pieno senso della parola. Per i bisogni dell’uomo sarebbe più che sufficiente una comune coscienza umana, e cioè la metà o un quarto di quella porzione di coscienza che tocca in sorte a una persona coltivata del nostro infelice diciannovesimo secolo… Sono fermamente convinto che non soltanto una coscienza troppo lucida, ma perfino ogni forma di coscienza è una malattia”. La coscienza rende estremamente problematico l’agire, il realizzarsi, il muoversi verso una qualsivoglia direzione, in quanto essa è il luogo in cui si sperimenta l’alternativa infinita dei possibili: “Infatti, per cominciare ad agire è necessario innanzi tutto essere perfettamente tranquilli ed essersi liberati da qualsiasi dubbio. Ma io, per esempio, come posso tranquillarmi?… Io sto continuamente in esercizio col pensiero, e perciò ogni causa prima ne trascina immediatamente dietro di sé un’altra, anche più profonda, e così via all’infinito”. L’eccessivo meditare e problematizzare, il ripiegarsi verso il mondo interiore, i paralizzanti tormenti dell’autoanalisi costituiscono, nel loro insieme, la malattia, mentre la salute, al contrario, consiste nell’agire immediato, nella spontaneità superficiale e acritica.
Si arriva così alla distinzione, fondamentale per Dostojevskij, tra l’uomo del sottosuolo e l’illuministico homme de la nature et de la vérité. Il primo, lo abbiamo visto, convinto di essere condannato a un’infelicità che non vale la pena di riscattare, si rinchiude nel suo guscio, pieno di disprezzo per il resto del mondo e di orgoglio per la propria vivida, ancorché sterile, intelligenza. Il secondo invece è colui che, proiettato senza problemi verso una totale armonia con la natura e con i suoi simili, prende come fondamento indiscusso della propria esistenza quegli ideali che (come l’utile, il piacere, il benessere) trova più a portata di mano. L’homme de la nature et de la vérité forse è felice, ma la sua felicità è meschina e conformistica, prodotto di uno spirito arido e pigro. Di fronte a questa squallida soluzione, l’uomo del sottosuolo si chiede sprezzante cosa sia meglio, se “una felicità da quattro soldi o delle sublimi sofferenze”. Dostojevskij, pur rendendosi perfettamente conto dell’improduttività del suo protagonista, sfrutta la goffa e anarcoide ribellione di costui per fare una appassionata perorazione della personalità, della libertà e della fantasia dell’individuo contro “le leggi della natura, le deduzioni delle scienze naturali, la matematica”, cioè contro tutto ciò che spinge a congelare l’inesauribile varietà della vita in formule, tabelle, regole e calendari. Di fronte al muro eretto dalla ragione, è “meglio lasciarsi voluttuosamente marcire nell’inerzia, tacendo e digrignando i denti nell’impotenza”, piuttosto che dichiararsi vinti in perfetta buona fede. In questo rifiuto irrazionale e arbitrario di ogni ordine logico, l’uomo del sottosuolo, pur abbruttito dalle sofferenze e reso meschino dalle umiliazioni, ritrova una nuova e insperata dignità: la dignità di chi vuole, a tutti i costi, affermare la propria autentica, scandalosa singolarità, anche al prezzo di non trovar posto in nessun sistema razionale.
La libertà, per Dostojevskij, è giocoforza paradossale e non sottoposta alle leggi positiviste del vantaggio e dell’interesse. “Voi siete convinti che… non appena la ragione e le scienze avranno completamente rieducato e indirizzato sulla retta via la natura umana... allora l'uomo cesserà spontaneamente di sbagliare e… non vorrà più creare un divario tra la sua volontà e i suoi normali interessi. Non solo: voi sostenete anche che allora la scienza stessa insegnerà all’uomo che in lui, in realtà, non esiste né la volontà né il capriccio,… e che lui stesso è solamente una specie di tasto di pianoforte o di pedale d’organo… cosicché, qualunque cosa egli faccia, questa si compie non in forza del suo volere, bensì secondo le leggi della natura. Restano dunque soltanto da scoprire queste leggi della natura, e poi l’uomo non dovrà più neppure rispondere delle proprie azioni, e vivere gli diventerà estremamente facile”. Ma la natura umana è più complessa di quanto sembri a prima vista e i tentativi di inalvearla entro i sicuri ed edificanti canali della logica e del progresso sono destinati prima o poi ad essere irrisi dai capricci ingovernabili della volontà. “Ecco, vedete: la ragione, signori miei, è una buona cosa, questo non si discute, ma la ragione è pur sempre soltanto ragione e soddisfa soltanto le facoltà razionali dell’uomo; la volontà invece è manifestazione della vita intera, cioè di tutta la vita umana, con la ragione e tutto il resto… Che cosa sa la ragione? La ragione sa soltanto ciò che ha avuto il tempo d’imparare, mentre la natura umana agisce invece nella sua integrità, con tutto ciò che è in lei, sia coscientemente sia incoscientemente, e anche se mentisce, essa però vive”. Non è detto quindi che l’uomo diventi migliore e più felice se vive secondo i dettami della ragione e della scienza, al contrario può essere indotto a preferire ad essi qualcosa di nocivo e svantaggioso, in taluni casi addirittura la distruzione e il caos. “E infatti questa assurdità, questo suo capriccio, può essere proprio la cosa più utile e vantaggiosa di questo mondo,… persino nel caso che ci apporti un danno evidente e contraddica alle più sensate conclusioni della nostra ragione relative al nostro vero vantaggio, e ciò perché in ogni caso esso ci garantisce quel che per noi è più essenziale e più caro, e cioè la nostra personalità e individualità”.
La libertà, quindi, è anche libertà di errare, di peccare e di cadere, perché l’errore, il peccato, la caduta sono elementi necessari e insopprimibili alla dialettica dell’esistenza. Il protagonista delle “Memorie” va così ad aggiungersi a quella folta schiera di personaggi dostojevskijani (un nome su tutti: Dmitrj Karamazov) che, proprio grazie alla bruciante esperienza della perdizione, scoprono in loro rinnovate possibilità di redenzione. Con questo non voglio dire che le “Memorie del sottosuolo”, con la loro critica radicale alla scienza e alla logica euclidea, preludano alla luminosa affermazione di quel sovramondo che, per fare un significativo esempio, costituisce l’impalcatura etica de “I fratelli Karamazov”. Se in Alesa e Zosima la negazione della convenzionalità degli schemi razionali avviene dall’alto, nell’uomo del sottosuolo infatti essa si esprime ancora a un livello inferiore e non compiutamente risolto. Eppure anche l'uomo del sottosuolo, sono parole dello stesso Dostojevskij, è necessario nella nostra società, in quanto, con le sue contraddizioni e la sua irrazionalità, mette in tragica evidenza la precarietà e l'inanità degli sforzi umani di dare un ordine saldo e duraturo all'universo.
Se il contenuto ideologico delle “Memorie del sottosuolo” ha la stessa violenta carica provocatoria dei grandi romanzi della maturità, non altrettanto si può dire, purtroppo, del loro valore letterario. La rappresentazione del lancinante e sconnesso delirio cerebrale del protagonista non raggiunge mai la potente, quasi shakespeariana, grandezza del vorticoso monologare dell’animale kafkiano de “La tana”, che alle “Memorie” si richiama per moltissime analogie, né la dolente umanità che la follia conferisce al gogoliano scrivano del “Diario di un pazzo”. C’è qualcosa di troppo cerebrale, di troppo astratto, quasi di artificioso, in queste lucide e amare riflessioni che, quando cercano di darsi un’espressione più sistematica, scadono a livello di un polemico pamphlet. Inoltre, la descrizione di alcuni avvenimenti della vita reale del protagonista (l’episodio dell’ufficiale, quello della prostituta), oltre ad essere stilisticamente diseguale e artisticamente superflua, rischia paradossalmente di togliere validità alle idee precedenti, in quanto il lettore è quasi trascinato a credere che solo con una norma razionale costantemente perseguita si evita lo sfaldamento della personalità, cui invece fatalmente conduce il culto dell’irrazionale (esattamente il contrario cioè di quanto Dostojevskij voleva si ricavasse dalla tragedia del suo personaggio). Voglio perciò concludere citando una breve frase che, assai meglio di tutte le sue idiosincrasie anti-razionalistiche, riflette secondo me l’immagine più autentica del protagonista: “Io sono solo, e loro sono tutti”. E’ la malinconica immagine di un uomo che si sente smarrito in un mondo ostile e che sceglie il sottosuolo perché incapace di competere con delle regole in cui il più forte trionfa sempre e in cui la gara degli interessi non è più mascherata dalle vecchie credenze e dagli antichi valori.
Indicazioni utili
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Per la contestualizzazione di di quest'opera, ti segnalo il recente bel romanzo storico, rigoroso e documentatissimo, "Il giardino dei Cosacchi", del grande scrittore Brokken.
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