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NEL LABIRINTO DELLA FOLLIA
“A questo punto il giaguaro di destra estrae una selce acuminata e la pianta nel cuore della vittima. Uno spigolo apre nel petto uno squarcio profondo. Kien chiude gli occhi inorridito. Pensa che il sangue sprizzi al cielo e biasima una simile barbarie medioevale. Aspetta fino a quando pensa che il sangue abbia cessato di scorrere e poi apre gli occhi. Orrore: dal petto squarciato salta fuori un libro, poi un secondo, un terzo, una moltitudine. Non accennano a finire, cadono per terra dove vengono avvolti da fiamme striscianti. Il sangue ha appiccato il fuoco al rogo, i libri bruciano. «Il petto!» grida Kien al prigioniero «chiuditi il petto!». Gesticola con le mani, così deve fare, ma presto, presto! Il prigioniero capisce; con un violento strattone si libera dei legami e si porta le mani al cuore; Kien respira sollevato.
Ma ecco, la vittima si allarga lo squarcio nel petto, libri su libri rotolano fuori. A dozzine, a centinaia, impossibile contarli; il fuoco lambisce la carta; ogni libro implora aiuto, grida stridule si levano da ogni parte. Kien protende le braccia verso i libri che bruciano… Kien lancia un urlo e si sveglia”
“Auto da fé” provoca fin dalle prime pagine un curioso effetto di identificazione. Il lettore di Canetti non può infatti fare a meno di rispecchiarsi istintivamente nel protagonista, il professor Kein, e nelle sue ossessioni: l’amore morboso per i libri, l’esaltazione solipsistica che dà l’erudizione, il disprezzo per la volgarità e le meschine occupazioni della gente, l’isolamento esclusivo nella torre d’avorio della cultura, la biblioteca come microcosmo perfetto e rifugio contro le irruzioni del mondo esterno. Tutto questo è presente in Kein in forma patologica e maniacale, ma è innegabile che, magari in piccolissima parte, in modo più o meno consapevole, appartenga anche al lettore più smaliziato. Chi ama la letteratura (o la musica, la filosofia, il cinema,…) è snobisticamente indotto ad anteporre l’arte alla vita, sebbene probabilmente solo per il breve lasso di tempo riservato alla lettura di un libro, all’ascolto di una sinfonia, alla visione di un film: in quei momenti, che faccia piacere o no, egli è Kein e tutto il resto, vale a dire quella porzione di realtà esterna da cui non è possibile evitare di farsi lambire e in maggior o minor grado coinvolgere, è incarnato dalla governante Therese. Il rapporto tra Kein e Therese diventa pertanto la metafora di un rapporto più complesso: quello dell’io del lettore (o più in generale del fruitore dell’opera d’arte) con la vita banale e prosaica di tutti i giorni che, con il ricorso sublime all’arte (di cui i libri di Kein sono un simbolo esemplare), ci si sforza di eludere.
Il fenomeno di identificazione del lettore in Kien, certo, non va oltre i primi capitoli, quelli in cui l’autore analizza in termini ancora prevalentemente realistici, sia pure connotati da un gusto sottilmente perverso e beffardamente sado-masochistico, la lotta senza esclusione di colpi tra i due sessi cui il ménage matrimoniale conduce, con il progressivo sacrificio dello spazio della biblioteca che la razionalità intellettuale deve subire di fronte alla rozza e prepotente avanzata dell’istinto ferino. Ma quando, in maniera inattesa, Kien viene cacciato di casa ed è costretto a rinunciare alla propria biblioteca, Canetti dimostra, oltre di non voler rinchiudere la propria narrazione entro il claustrofobico perimetro di un appartamento, anche di puntare a qualcosa di più di una satirica requisitoria contro il matrimonio o contro l’intellettualismo fine a se stesso, ampliando il suo discorso in una chiave eminentemente metaforica. “La cultura è un salvagente dell’individuo contro la massa che è in lui”, afferma lo scrittore austriaco. Ed è così che, gettato fuori dal suo mondo ovattato e rassicurante, Kien diventa il protagonista di una vera e propria discesa negli inferi della condizione umana, finendo in balia di una moltitudine di bizzarri e strampalati personaggi (veri e propri freaks di una Vienna rappresentata in maniera espressionisticamente inedita, quasi surreale), i quali sono la proiezione a un livello generale di quella parte selvaggia e belluina dell’io (la “bestia nell’uomo”) rappresentata, come si è visto, da Therese o dal portiere Pfaff. Essi danno vita a una sarabanda folle, frenetica, vertiginosa, in cui la logica deraglia miseramente e la caricatura, la burla, il riso iniziali sfuggono progressivamente ad ogni controllo e finiscono per strozzarsi in un muto grido di orrore. L’umanità di Canetti è popolata di piccoli imbroglioncelli, furfanti di mezza tacca, invalidi fasulli che vivono di accattonaggio, laidi vagabondi e impiegatucci senza un soldo in tasca, ruffiani e prostitute, tutti quanti affannati a garantirsi, l’uno in lotta contro l’altro, un illusorio spicchio di benessere nell’improba lotta per la sopravvivenza che è la loro vita. Questa è la fauna, stracciona, anarchica, opportunista e pusillanime, che popola la stramba “comédie humaine” canettiana e in cui si imbatte Kien quando finalmente esce nel mondo e, novello Don Chisciotte, intraprende, fidandosi ingenuamente della lealtà del suo Sancho Panza, ossia il nano Fischerle, la sua folle crociata per salvare i libri contro l’incuria e l’ignoranza con cui vengono usualmente trattati (e il Theresianum, il Monte dei Pegni, assume un po’ il ruolo – proseguendo nell’analogia cervantesca - dei mulini a vento dell’eroe spagnolo). Questa umanità viene ritratta con uno spassoso e colorito gusto caricaturale, ma dietro la superficie farsesca si cela un giudizio impietoso, ancorché alieno da ogni moralismo, per quelli che, a livello individuale, sono patetiche marionette sballottate dal destino, ma che, convertiti in folla, diventano una marea incontrollabile e impetuosa di pulsioni primitive e irrazionali, pronta a degenerare in men che non si dica nella violenza e nel caos (come infatti avviene nel capitolo “Il ladro”). “Auto da fé”, nonostante le apparenze di apologo fuori dal tempo e dalla storia, diventa perciò, visto in questa ottica, un clamoroso atto di accusa verso quella situazione sociale gravida di rivendicazioni deluse e di fanatismo, di populistica grettezza e di razzismo, che sfocerà di lì a poco nell’avvento del nazismo.
Uno dei tratti più caratteristici del romanzo di Canetti è il frequente, ancorché indiretto, ricorso che egli fa alla psicanalisi e alla psichiatria. Non è un caso, forse, che il fratello di Kien, Georg, sia un famoso alienista che dirige una clinica di malattie mentali. E a un manicomio fa spesso venire in mente questa pantomima tragicomica, in cui tutti i personaggi sono in preda alle ossessioni e alle manie più diverse: non solo i libri per Kein, il quale vive chiuso nel suo angusto universo mentale e che, quando esce per la strada, confronta tutto ciò che vede con quello che ha in precedenza letto e che ritiene sia il solo garante di verità ed autenticità (finendo inevitabilmente per essere depredato, truffato, malmenato e ridotto in schiavitù, pur conservando intatta la sua spocchiosa alterigia, incapace com’è di far tesoro delle esperienze che non derivino dalle asettiche pagine di un testo antico); ma anche i soldi per Therese, che tormenta il marito con il testamento, il costo della vita (“i prezzi aumentano di giorno in giorno, le patate costano già il doppio” è il suo tormentone preferito), le meschine aspirazioni a un benessere piccolo-borghese (a cui si affida autoconvincendosi di essere una donna giovane e piacente, grazie soprattutto alla ridicola gonna inamidata che esibisce davanti a tutti come un simbolo di magnificenza); i pugni per il portinaio, che si vanta di aver picchiato per anni la moglie e la figlia e si cruccia di non poter più menare le mani con nessuno; gli scacchi per il nano Fischerle, che sogna di riscattarsi e diventare famoso battendo il campione del mondo in una utopica America, destinata a svanire beffardamente proprio quando sembrava essere a portata di mano; e ancora le donne grasse per il mendicante cieco, le cravatte per l’ispettore di polizia dal naso piccolo, ecc. ecc. Le ossessioni reali dei protagonisti finiscono addirittura per sovrapporsi a quelle che, freudianamente, fuoriescono dal subconscio durante il sonno, generando per essi una curiosa confusione tra immaginazione e realtà: così Kien si convince che la moglie è morta di inedia nell’appartamento da lui lasciato, e confessa successivamente alla polizia tutti i dettagli (compresi quelli del funerale) che lui stesso ha costruito con la sua fantasia, credendoci poi come fatti incontestabili; e Fischerle, analogamente, crede di essere già il campione del mondo di scacchi, e non solo immagina la sua futura vita fatta di fama, onori e ricchezze, ma anche i suoi progetti e i suoi comportamenti pratici vengono influenzati da questa chimera, spacciata come cosa vera e incontrovertibile. Il risultato di questa commistione tra sonno e veglia è che l’intero romanzo assume la forma propria di un incubo. I personaggi si muovono infatti come sonnambuli, le leggi della realtà funzionano solo saltuariamente, e in scene come quella dell’interrogatorio, che sembra uscita da un racconto di Kafka, ognuno può agevolmente accusare tutti, sfidando qualsiasi verosimiglianza logica, e contemporaneamente sentirsi in colpa per qualcosa che non ha commesso.
E’ evidente che l’unico sbocco possibile per il romanzo è la follia. Il precario equilibrio iniziale di Kien, tenuto a stento insieme per mezzo delle severe regole di vita che questo vero e proprio anacoreta della cultura si è dato, vacilla con il matrimonio, e la sua progressione verso la pazzia è inarrestabile: egli arringa la sua biblioteca incitandola alla resistenza contro l’invasore, si costringe alla cecità per non vedere i mobili nel suo studio, impara a diventare una statua di pietra per opporsi a Therese, quando è cacciato da casa si trascina parte dei suoi libri dentro la testa e, la sera, giunto nella stanza d’albergo, li ripone con cura a pile sul pavimento. Quando, al Theresianum, vede riapparire la consorte da lui considerata defunta, è convinto che si tratti di un inganno dei sensi e non esita a tagliarsi un dito per dimostrare a se stesso di essersi sbagliato. L’inatteso arrivo a Vienna del fratello Georg sembra essere il coup de théâtre che ristabilisce come per magia l’ordine e l’equilibrio che sembravano turbati per sempre. Ma l’intervento del deus ex machina parigino è solo l’ultima beffa che Canetti riserva al suo lettore. Infatti l’esito del libro è inevitabile, e tutti i segnali disseminati numerosi dall’autore fin dalle prime pagine – ad esempio, il sogno del giaguaro o quello del gallo rosso – avrebbero dovuto renderlo palese: l’ultimo, fatidico atto della follia di Kien è l’incendio della sua biblioteca, il sacrificio supremo, la catarsi definitiva, che suggella in maniera spettacolare, con le fiamme che crepitano come in un rogo medioevale, il gesto estremo, eppure perfettamente conseguente con ciò che è stata l’intera sua vita, di una mente smarritasi nel labirinto della follia.
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Non mi pare si tratti di una requisitoria 'antimatrimoniale' ; evidenzia bensì l'impossibilità di un menage fra opposti irriducibili.