Dettagli Recensione
UNA VITA SURROGATA
“Sono davvero affascinato dalla capacità che una condotta normale ha di esistere accanto al suo contrario”
“Prima di tutto parlerò della rapina commessa dai nostri genitori. Poi degli omicidi, che avvennero più tardi”. Le prime parole di “Canada”, che mi liberano una volta tanto dallo scrupolo di non spoilerare la trama del libro che vado a recensire, costituiscono un curioso paradosso: non si sa infatti se prenderle come una sorta di captatio benevolentiae del lettore (del tipo: “ti prometto una storia ricca di avvenimenti, colpi di scena ed elementi thrilling, come rapine ed assassinii appunto”) o al contrario come una dichiarazione di intenti autoriale (in altre parole: “non mi importa quasi nulla della trama, quello che conta sta nascosto altrove e sta a te scoprirlo”). In realtà, la rivelazione di ciò che avverrà nelle pagine seguenti (tra l’altro raccontato quando dai fatti narrati sono trascorsi ben cinque decenni) è un modo per togliere ogni suspense al racconto e, privando chi legge di qualsiasi distrazione emotiva legata alle aspettative di come andrà a finire, concentrarsi su quello che è il vero e proprio tema portante del romanzo, ossia la storia di formazione del protagonista Dell, un quindicenne condannato da un giorno all’altro alla condizione di orfano prima e di esule poi, solo al mondo e costretto a fare affidamento soltanto sulle proprie forze e sulla sua scarsa esperienza della vita. “Canada”, che ricorda alla lontana l’universo di Charles Dickens (e ancor di più un’opera più recente di Donna Tartt, “Il cardellino”), è suddiviso in brevi capitoletti e in due parti nettamente distinte. Nella prima Ford ci proietta in una normalissima famiglia della provincia americana degli anni ’60 (padre, madre e due figli gemelli), raccontando con minuziosa dovizia di dettagli cronachistici e psicologici la sua dissoluzione dovuta alla sciagurata scelta dei due genitori di commettere una rapina in banca per riuscire a pagare un grosso debito contratto dal padre a causa di un affare andato a male. I novelli rapinatori, non essendo propriamente due Bonnie e Clyde, vengono ben presto individuati dalla polizia e arrestati, ma quello che più attira in queste pagine è la interessante descrizione degli ultimi giorni di “normalità” vissuta dalla famiglia, quando gli ignari figli percepiscono uno strano movimento dentro le mura di casa, quando il padre non assomiglia più a quello di prima pur non potendo dire precisamente il perché, quando le domande che si affacciano nella testa di Dell e di sua sorella rimangono inesorabilmente senza risposta e una minaccia inespressa sembra incombere su tutti come un temporale di fine estate. Allorquando i due genitori vengono arrestati e Dell, separatosi dalla sorella, viene caricato su un’auto e portato nel vicino Canada per sfuggire all’orfanotrofio inizia tutta un’altra storia. Catapultato in un mondo sconosciuto, tra estranei che si accorgono a malapena della sua presenza, il fragile ragazzino sperimenta la solitudine più spaventosa (“La solitudine – scrive Ford – è come fare una lunga coda in attesa di arrivare allo sportello dove hanno promesso che succederà qualcosa di buono. Solo che la coda non si muove mai, e gli altri ti passano davanti, e lo sportello, il posto dove vuoi arrivare, è sempre più lontano, finché perdi la speranza che abbia qualcosa da offrirti”). Solo il tempo gli permetterà di imparare che “non abbiamo sempre la possibilità di scegliere i nostri inizi”, una formidabile lezione di vita che oggi, nell’epoca del precariato, si potrebbe anche riassumere con la parola “flessibilità”. Privato repentinamente dalla sorte della esistenza comoda e rassicurante che immaginava dovesse durare per sempre (l’accogliente nido familiare, la tranquilla vita di provincia, il college), Dell è costretto a vivere una vita “surrogata”, la quale manda completamente a gambe all’aria quella esigenza di ordine e razionalità rappresentata dalle sue passioni per il gioco degli scacchi e per il mondo delle api. Egli impara a non pensare troppo al futuro (“Presta attenzione al presente. Non scartarne dei pezzi”, gli raccomanda l’amica della madre che lo accompagna al di là del confine), a non vivere nel rimpianto del passato perduto (“È sbagliato desiderare che le cose non siano accadute, persino le peggiori, come se uno avesse mai potuto trovare la sua strada fino al presente con altri mezzi”) e a capire che fra l’ammirazione per gli altri (siano essi i genitori o il misterioso e ambiguo Arthur Remlinger, il cui rapporto con Dell ricorda un po’ quello tra Jim e Long John Silver ne “L’isola del tesoro” di Stevenson) e la scoperta della loro scelleratezza il passo è più breve di quello che si può immaginare. “Canada” è un romanzo sull’accettazione del proprio destino (“Sai cosa significa avere un senso? – dice il padre a Dell – Significa che accetti le cose. Se capisci, poi le accetti. Se le accetti, capisci”), sulla capacità di non rassegnarsi anche quando si è costretti a ricominciare da zero: è cioè, in buona sostanza, un romanzo impregnato di quello che è un po’ il carattere saliente dell’american way of life, ossia la necessità di trovare la propria strada nella vita sfruttando unicamente (nel bene e nel male, come dimostra il lugubre colloquio finale con la sorella malata) le proprie doti e le occasioni incontrate lungo il cammino. Il romanzo di Ford è anche un lungo, inesorabile interrogarsi sul destino dell’uomo, su ciò che lo ha infine condotto ad essere ciò che è diventato e sulle condizioni che avrebbero potuto orientare la sua esistenza in un’altra, opposta direzione.
Eppure, nonostante le indubbie qualità artistiche dell’autore, non si può affermare che “Canada” sia un’opera del tutto riuscita. Se la prosa di Ford vorrebbe indubbiamente aspirare allo stile di Philip Roth (quell’inimitabile connubio tra complessità tematica e semplicità di lettura che caratterizzava così bene il compianto scrittore di Newark), c’è da dire che la storia di Dell non riesce quasi mai ad assurgere a metafora di una nazione o di un’epoca, e di quando in quando affiora persino un certo didascalismo di fondo (come quando invita “a non cercare troppo accanitamente significati nascosti od opposti – anche nei libri – ma a guardare nel modo più diretto possibile le cose”, solo così “riuscirai sempre a trovarvi un senso e a imparare ad accettare il mondo”). Inoltre, se a tratti le descrizioni dell’ambiente canadese riescono nella non facile impresa di richiamare alla memoria il fascino di un maestro del ritratto paesaggistico come il Turgenev de “Le memorie di un cacciatore”, non va sottaciuto che in molte pagine a prevalere è soprattutto la noia. Se questo sentimento sia da attribuire più all’ostico paese scelto, oltre che come titolo, anche come sfondo geografico, e ancor più simbolico, della storia (“un luogo di assenza e di promesse abbandonate”), oppure al tono straniante e anti-emozionale adottato dal narratore, lascio ad altri lettori decidere. Fatto sta che “Canada”, pur lasciando intravedere un notevole potenziale (ad esempio come sceneggiatura per una possibile trasposizione cinematografica), non riesce del tutto a mantenere le sue promesse implicite. Aver preteso di abbandonare di punto in bianco al loro destino personaggi di grande spessore umano, che probabilmente avrebbero meritato un maggiore spazio e una maggiore empatia (i genitori e la sorella del protagonista, Arthur Remlinger), e aver voluto privilegiare un realismo eccessivamente scabro e disadorno, forse più adatto alla penna di uno scrittore come Cormac McCarthy, è stata una scelta artisticamente onesta e sotto certi aspetti perfino coraggiosa, ma, a mio modesto e perfettibile parere, non pienamente convincente ed azzeccata.
Indicazioni utili
"Il mare" di John Banville