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CASO O DESTINO?
La dialettica tra caso e destino ha affascinato intere generazioni di scrittori, di pensatori e di teologi: essa è alla base tanto della tragedia classica quanto delle opere di ispirazione cristiana, e informa anche un curioso, seppur non eccelso, romanzo di Thornton Wilder, “Il ponte di San Luis Rey”. Dal fantomatico episodio del crollo di un ponte peruviano, che all’inizio del XVIII secolo ha provocato cinque vittime, parte una inchiesta sulla ricerca dei motivi ultimi che hanno fatto sì che proprio quelle cinque persone, tra le centinaia di viaggiatori che giornalmente lo attraversavano, si trovassero proprio lì al momento della tragedia. Frate Ginepro, il religioso protagonista della quest, che già era alla ricerca di “esperimenti che giustificassero le vie del Signore agli uomini” (come ad esempio “un registro completo delle rogazioni per ottenere la pioggia e dei risultati avuti”) vede nella caduta del ponte “un laboratorio perfetto” dove “finalmente era dato all’uomo sorprendere le Sue intenzioni allo stato puro”. Le vite dei cinque personaggi, compresi gli episodi più insignificanti, vengono così vivisezionate nel tentativo di trovare un filo conduttore che le accomuni in un disegno trascendente di lampante ed edificante evidenza. Ma lo sforzo di frate Ginepro è destinato all’insuccesso. Tutto infatti risulta casuale e non riconducibile a uno schema preciso; la morte ora appare beffarda (quella della marchesa di Montemayor che alla vigilia aveva proclamato con solennità: “Domani incomincio una nuova vita”), ora pietosa (quella di Esteban, che, disperato per la scomparsa del fratello, aveva invano tentato di suicidarsi), ora ancora sembra irridere i tentativi di pianificare il proprio futuro (la morte di Pepita, inutilmente allevata da Madre Maria del Pilar per diventare un giorno la continuatrice delle sue opere assistenziali), mentre nessuna predestinazione o segno della provvidenza divina è rintracciabile nei tragici avvenimenti. Wilder si fa evidentemente beffe di frate Ginepro, delle sue ridicole tabelle nelle quali vuole racchiudere (quantificando aspetti eminentemente qualitativi come bontà, devozione e utilità sociale) la pluralità delle esistenze umane, e soprattutto dello stolido tentativo di far scendere la metafisica al livello della scienza positiva (non a caso la vicenda è ambientata nel “secolo dei lumi”). Per lo scrittore americano, che non intende certo essere confuso con quella schiera sempre più numerosa di spiriti scettici e disillusi che vedono nella apparente casualità dei fenomeni la prova dell’inesistenza di Dio, la fede è qualcosa di problematico, arduo e tormentoso, disperatamente priva della consolazione di sapere se quello che si sta vivendo va nella direzione evangelicamente giusta. Per questo motivo il vero protagonista del romanzo non è l’idealista frate Ginepro, bensì la badessa Maria del Pilar, donna pratica e volitiva, ma travagliata da mille dubbi sulla effettiva utilità della sua missione. A lei è concessa la lungimiranza di esprimere la morale ultima della storia: l’unica cosa che conta nella vita è l’amore che si è dato, magari misconosciuto e incompreso (ella rimane sorpresa nello scoprire quanta bontà si nasconda negli animi umani, anche quelli più apparentemente gretti e meschini), magari incapace di sopravvivere al ricordo (“neppure la memoria è necessaria all’amore”), eppure in grado di fare miracoli in coloro che restano in vita. Forse, chissà, frate Ginepro avrebbe colto nel segno se, anziché studiare vanamente le esistenze delle vittime, avesse indagato quelle dei sopravvissuti.
Le poco più di cento pagine de “Il ponte di San Luis Rey” si sviluppano nella forma di un memoriale oggettivo e doviziosamente documentato, nello stile dei “libretti filosofici” del Settecento. La prosa semplice e chiara, il ruolo onnisciente del narratore, la tendenza all’aneddoto e un certo didascalismo di fondo richiamano costantemente la letteratura di quel secolo, costituendo forse il limite più grande del romanzo. Il confronto con la cultura contemporanea che l’anacronistica ambientazione suggerisce, anziché offrire lo spunto per una riflessione critica di ampia portata, non va infatti mai al di là di una bonaria e tutto sommato innocua ironia, che trapela qua e là nei singoli episodi ma non riesce a coagularsi in una struttura narrativa e in una costruzione filosofica veramente efficaci e memorabili.