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Più forte di un legame di sangue
Che cosa abbia spinto Romain Gary a scrivere La vita davanti a sé (e non solo questa, ma altri tre romanzi) con lo pseudonimo di Emile Ajar non è ben chiaro, tanto più che di questa attribuzione effettiva siamo venuti a conoscenza solo dopo il suicidio dello scrittore. Infatti, in forza della pubblicazione postuma di Vita e morte di Emile Ajar, si venne a sapere che quell’Emile Ajar vincitore cinque anni prima del prestigioso Premio Goncourt con La vita davanti a sé altri non era se non Romain Gary. A onor del vero, se pur la psiche di Gary fosse particolarmente complessa, non è improbabile che la scelta di un altro nome da dare come paternità della sua produzione fosse anche dovuta al fatto che, in parte a ragione, si riteneva perseguitato dalla critica letteraria, che dopo l’attribuzione del Premio Goncourt 1956 con Le radici del cielo lo incolpava di non essere stato capace di ripetersi con libri di eguale valore. Per ironia della sorte anche La vita davanti a sé ottenne, come ho già scritto, il prestigioso premio Goncourt e la cosa più strabiliante è che riviste di critica letteraria che avevano bersagliato Gary si dimostrarono entusiaste per Ajar. A parziale giustificazione di questo comportamento incongruente devo dire che per stile e argomenti il romanzo in questione sembra effettivamente scritto da un autore diverso, anche se alcuni aspetti tipici di Gary, come per esempio una certa vena poetica, ogni tanto affiorano, nonostante un linguaggio meno ricercato e più crudo.
Ciò premesso, è arrivato il momento di una disamina di quest’opera che, a onor del vero, alla sua uscita ha suscitato opinioni contrastanti e anch’io, benché mi sia piaciuta, ho comunque formulato delle riserve perché in bocca a un bambino certe frasi e certe riflessioni a volte sembrano artificiose, trattandosi di discorsi propri di uomini maturi. Però devo ammettere che il piccolo Momò ha una sua naturale simpatia, una tenerezza nella sua fanciullesca innocenza che coinvolge emotivamente. Periferie squallide dove vivono emarginati gli immigrati, le famose banlieues sono lo scenario, il palcoscenico su cui si svolge una vicenda tutto sommato semplice ma che è un grande romanzo d’amore, non dell’amore fra un uomo e una donna, ma del forte legame affettivo fra il bambino e la donna ebrea a cui è stato affidato, a dimostrazione che non esistono solo i vincoli di sangue e che nel bene e nel male l’esistenza può essere anche motivo di gioia, purché si abbia il desiderio di vivere, concetto molto bello, ma strano in un uomo che poi si suiciderà.
Non era facile da scrivere, era anzi difficile proprio per l’ambientazione, per i personaggi, rappresentanti di un mondo di reietti in cui abbondano protettori, drogati, prostitute, e far uscire da quel letamaio un giglio come Momò per dimostrare che in qualsiasi circostanza la vita comunque vale pena di essere vissuta deve avere quasi provocato nell’autore un’ossessiva ricerca del suo originario e ormai trascorso spirito infantile.
La vita davanti a sé non è un capolavoro come Educazione europea, benché toccato dalla grazia, incline però un po’ troppo, nonostante la rudezza dell’esposizione, a un sentimentalismo neppure tanto velato; è però quel che si dice un romanzo eccellente, dalla gradevole lettura e che lascia un’intensa commozione, facendo nascere un istintivo desiderio di protezione, la voglia di stendere una mano per carezzare il viso piangente di Momò.
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Dell'autore ho tanto sentito parlare, a cominciare da Brokken nel suo bellissimo "Anime baltiche". Di lui però non ho letto niente. Mi sono fatto l'idea che sia meglio cominciare con "Gli aquiloni" : tu l'hai letto?