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Un lungo brillante monologo di un'anima tormentata
Pubblicato nel 1969 è il quarto libro di un grande Philip Roth, un colosso della letteratura americana (e pensare che neppure uno strameritato Nobel gli hanno dato !) e si caratterizza per la struttura inusuale del testo: è un lungo monologo del narratore Alex Portnoy (alter ego evidente dell’autore) al suo psicanalista, che ascolta (o si suppone che ascolti attentamente) senza mai intervenire se non nel finale, in due o tre scarne righe tutte da interpretare. Il monologo non è di un paziente qualsiasi, ma di un interlocutore che, fra l’altro, dopo un brillante corso di studi è arrivato a ricoprire la carica di Commissario per lo sviluppo delle risorse umane al Comune di New York. Nella lunga, concitata, a volte ironica confessione, la narrazione, o meglio la messa a nudo senza censure di un’anima, procede su diversi piani temporali, saltando da ricordi giovanili e familiari a momenti contemporanei in cui eros, amicizie, divagazioni di ogni genere rivelano i tormenti e le contraddizioni del paziente, rappresentante di un popolo, l’ebraico, che in America ha conquistato spazi importanti vagheggiando e rifiutando al tempo stesso una totale integrazione. Un’infanzia ed una giovinezza difficili, pur confortate da studi brillanti, ma complicate e condizionate al tempo stesso da una madre insopportabile, logorroica, ossessiva e possessiva, sempre volta a correggere, guidare, rimproverare un figlio già potenzialmente ribelle, e da un padre anonimo, molle, frustrato dal lavoro poco gratificante di assicuratore: la ribellione cova sotto la cenere, le pulsioni aumentano, i tormenti esistenziali sfociano in atteggiamenti di rivolta, mai eclatanti ma sempre frenati dalla tormentata consapevolezza di far parte della razza ebraica, con doveri e rituali legati a modelli formali e dogmatici, in conflitto con la vita quotidiana in una società, quella americana, più libera e disinibita. A questo conflitto se ne aggiunge presto un altro, quello ben più devastante tra un senso etico innato maturato negli studi e nella peculiarità del lavoro svolto e gli impulsi sessuali ossessivi e continui, sfocianti spesso in vere e proprie perversioni, ben descritte in due interi capitoli del libro, il secondo (sull’autoerotismo) ed il quarto (sui rapporti con l’altro sesso). Conflitto, quest’ultimo, che porterà Portnoy a coltivare sensi di colpa e a non riuscire a raggiungere un equilibrio interiore, pur sempre fortemente auspicato. Il romanzo è forse uno dei migliori di Philip Roth, dissacrante e sincero, ironico e confuso, altalenante tra ricordi di un passato vincolato a dogmi mai superati e vicende assurde e imprevedibili di un presente sempre mutevole. Lo sghignazzo finale( un urlo? una risata liberatoria?) dice tutto. Ed è incomprensibile che ad uno dei più grandi scrittori americani a cavallo tra i due secoli non sia mai stato assegnato il Nobel per la letteratura, soprattutto dando un’occhiata agli ultimi Nobel, le cui opere restano e resteranno sconosciute ai più.
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