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Uno sguardo disincantato sulla vita e sulla morte.
Ho letto e riletto questo capolavoro pubblicato nel 2006, scritto da un Philip Roth alle soglie della vecchiaia, ben lontano dalla vivacità e dalla vitalità del “Lamento di Portnoy” del 1969: è un brano lirico che riflette sulla vita, sul passato e sulla fine imminente dell’esperienza umana, laddove, come recita un brano di John Keats posto a prefazione “ un tremito scuote gli ultimi radi e tristi capelli grigi, la giovinezza impallidisce, si fa spettrale e muore e il solo pensare è tutto un tormento”. Il protagonista è un uomo che è vissuto intensamente, ha provato gioie e dolori, passando attraverso tre matrimoni, con due figli che non lo amano, una figlia che lo adora, un fratello amatissimo, di cui invidia l’ottima salute. Salute che invece a lui ha voltato le spalle: cardiopatico cronico, è costretto a continui esami e ricoveri che minano progressivamente la sua fibra, pur tenacemente attaccata alla vita ed alla speranza di sopravvivere ancora una volta. I ricordi gli fanno amara compagnia, i contatti con i parenti si affievoliscono, la triste quotidianità nella quale consuma gli ultimi mesi della vita scorre inesorabile, ravvivata da flash sul passato e da tentativi di riallacciare rapporti sbiaditi nel tempo. “ La vecchiaia non è una battaglia, è un massacro”, così scrive Philip Roth, ma il nostro protagonista sembra rivivere e rivedere passato e presente con occhio disincantato, come se il fluire degli anni ed il progredire della malattia non lo riguardasse. Sembra sereno, quasi astraendosi dalla tristezza del vivere quotidiano: memorabile il lungo incontro al cimitero, ove si era recato per una visita alle tombe dei genitori, con un vecchio sterratore nero che sta scavando nuove fosse ed al quale chiede particolari sul suo lavoro e sulla sua famiglia. Gli allunga alla fine due biglietti da cinquanta, per ringraziarlo di aver approntato anche le fosse per i suoi cari e quasi presagendo un identico lavoro per sé. E la fine arriverà pochi giorni dopo, un arresto cardiaco durante un nuovo intervento chirurgico: “non esisteva più, era stato liberato dal peso di esistere, era entrato nel nulla senza nemmeno saperlo. Proprio come aveva temuto dal principio”. Un capolavoro, come ho scritto, sulla vita, sulla morte e sulla rassegnazione, intesa come accettazione serena, non priva di rimpianti, di una ineluttabile conclusione.