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Lamento di Portnoy
 
Lamento di Portnoy 2018-05-25 06:49:34 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    25 Mag, 2018
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SUL LETTINO DELLO PSICANALISTA

“Lamento di Portnoy [da Alexander Portnoy (1933- )], disturbo in cui potenti impulsi etici e altruistici sono in perenne contrasto con una violenta tensione sessuale, spesso di natura perversa. Osserva lo Spielvogel: «Atti di esibizionismo, voyeurismo, feticismo, autoerotismo e coito orale sono assai frequenti; come conseguenza della “moralità” del paziente, tuttavia, né le fantasie né le azioni si traducono in autentica gratificazione sessuale, ma piuttosto in un soverchiante senso di colpa unito a timore di espiazione, soprattutto nella fantasmatica della castrazione» (O. Spielvogel, Il pene perplesso, in «Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse», vol. XXIV, p. 909). Lo Spielvogel ritiene che gran parte dei sintomi vadano ricercati nei legami formatisi nel rapporto madre-figlio.”

Per chi conosce le pellicole di Woody Allen o le barzellette di Moni Ovadia non dovrebbe essere una sorpresa: l’ambiente ebraico è sempre stato caratterizzato da una tendenza ironicamente autodenigratoria tale da controbilanciare il rigido fondamentalismo della religione. Così, il romanzo di Roth, per quanto estremo, iperbolico e provocatorio, si inscrive perfettamente in questo filone, teso a mettere a nudo le ipocondrie e le idiosincrasie di un modus vivendi che, mentre inconsciamente ambisce alla “normalità” degli altri (i goys, le shikses, cioè i cristiani tanto vituperati dai genitori dell’autobiografico protagonista ma da quest’ultimo bramati come oggetti del desiderio per la loro vita disinibita e permissiva), si porta appresso come una palla al piede tutti i cavilli, i laccioli, le panie di una religione che da millenni costringe un intero popolo alla orgogliosa ricerca della perfezione etica, ma anche all’isolamento, all’esclusione, alla sofferenza. Si crea in tal modo un’antinomia tra l’aspirazione ad essere integrato nell’american way of life da una parte e il condizionamento della cultura d’origine dall’altra. Di qui la ribellione di Alex (“io sono ateo” proclama allo sbigottito genitore), ma anche l’inevitabile e annichilente senso di colpa. Il vero leitmotiv del libro consiste infatti nell’oscillare del protagonista tra le infrazioni alle regole e alla morale e il conseguente, paralizzante rimorso. A determinare questo atteggiamento contribuisce, c’era ovviamente da aspettarselo, l’ambiente familiare: la madre castratrice e il padre frustrato, che, in gustose scenette domestiche dall’irresistibile vis comica, fanno crescere il figlio in un’infanzia colma di terrore, in un’adolescenza piena di sensi di colpa e in una maturità avvelenata dall’insoddisfazione per non essere in grado di accondiscendere alle aspettative ossessivamente riposte in lui (perché, a quanto pare, nell’universo yiddish, un figlio non riesce mai ad affrancarsi completamente, a dispetto delle proclamazioni di autonomia e di indipendenza, dalle catene parentali). Alexander adulto si porta dietro tutte le frustrazioni, le paure e le manie appiccicateglisi addosso nel corso del suo lungo e tragicomico apprendistato alla vita, in cui le pulsioni e i desideri (soprattutto quelli erotici) sono fatalmente destinati a entrare in conflitto con la coscienza (come in quella buffa scena, creata dalla sua immaginazione in seguito alla paura di aver contratto la sifilide da una ragazza italo-americana, in cui il suo pene cade per terra di fronte ai logorroici e sentenziosi genitori), provocando un corto circuito dell’io che fatalmente non può che condurlo sul lettino di uno psicanalista.
Il romanzo è infatti un monologo-confessione che il protagonista fa al suo terapista e nel quale ripercorre tutta la sua vita, dai primi anni trascorsi in quella “scuola di polemologia” (come lui stesso la definisce) che è la sua famiglia fino alle pirotecniche avventure sessuali da single, nei quali dà sfogo, quasi per ribellione, a un istinto fondamentalmente egoistico, onanistico, incapace di dar vita ad autentiche e responsabili relazioni sentimentali (come accade nel rapporto con la Scimmia, che sembra una versione degradata e satirica della proustiana storia d’amore di Swann con Odette). In queste pagine, che per Alex vorrebbero essere liberatorie ma che in realtà mettono impietosamente in evidenza la sua immaturità e la sua infelicità, Roth non segue la cronologia degli avvenimenti bensì un andamento che privilegia le libere associazioni dei ricordi, saltando da un aneddoto all’altro, passando dalla prima infanzia al presente per poi tornare nuovamente indietro all’adolescenza, riannodando infine i fili spaiati della memoria, con una struttura narrativa che solo apparentemente è caotica, ma che in realtà risulta molto ben strutturata, e soprattutto ottimamente servita da un linguaggio il quale, per quanto a volte al limite della pornografia, lascia stupefatti per varietà di termini, fantasia e potente forza farsesca e caricaturale.

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Molto interessante anche alla luce della recentissima scomparsa del suo autore. Non ho mai letto niente di suo, il fatto che abbia mancato il Nobel mi incuriosisce, i contenuti meno.
In risposta ad un precedente commento
kafka62
28 Mag, 2018
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Ciao Laura. Anche Stanley Kubrick non ha mai vinto un premio Oscar, eppure non penso che la sua grandezza artistica abbia mai subito contraccolpi per questo motivo. Philip Roth, quando era in vita, ironizzava spesso sul fatto di essere un eterno candidato al Nobel senza vincerlo mai. Del resto molto raramente il premio è andato, a mio modesto avviso, agli scrittori più meritevoli. Con Roth se ne è andato un grande autore (i miei libri preferiti sono "Pastorale americana" e "Complotto contro l'America"), e solo il fatto che avesse deciso già da tempo di abbandonare la scrittura rende meno doloroso il rimpianto della sua scomparsa.
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