Dettagli Recensione
Momò
La prima impressione che colpisce leggendo “La vita davanti a sé” di Romain Gary è la scelta stilistica. Vuoi perché il romanzo è stato originariamente pubblicato con lo pseudonimo di Émile Ajar, vuoi perché l’io narrante è un bambino, Mohammed, detto Momò, e dunque l’autore ha ben pensato di immedesimarsi nei panni di una così giovane figura al fine di renderla tangibile e concreta, vuoi per distanziarsi dagli scritti conosciuti con il suo vero nome, sta di fatto che la penna con cui è composta questa opera è ben diversa da quella poetica e sublime a cui il lettore che già conosce altri titoli del lituano è abituato.
Parigi, quartiere di Belleville. Madame Rosa, ex prostituta di origine ebrea con un soggiorno prolungato ad Auschwitz, vive in un appartamento al sesto piano sito in questo anfratto muti-etnico di anime e raccoglie con sé, a pensione regolarmente pagata, i figli delle altre donne dedite al mestiere e che per la professione condotta, non sono legittimate – causa violazione dell’onore e della morale – a crescerli. Tra tutti Momò, musulmano, sembra essere l’eccezione in quanto intorno alla sua storia si cela il mistero. Attorno a questa aleggia un segreto che la donna sembra essere decisa a custodire sino alla morte. Un incontro, una visita inaspettata farà sì che il piccolo conosca non solo l’intera vicissitudine ma che venga anche, improvvisamente, a ritrovarsi quattordicenne. A differenza degli altri coinquilini della meretrice che si adattano a tutto e non si fanno problemi a concedersi a famiglie adottive, il giovane islamico, è un ometto che instaura con Madame Rosa un legame profondo. Egli è affamato di sentimenti, vive per questi, è fedele a colei che lo allevato e cresciuto anche quando, le condizioni di “deperimento” della stessa intraprendono una strada senza ritorno. Anche se talvolta non resiste ad affacciarsi in quei quartieri alti così lontani dalla sua vita di povertà e indecenza, anche se talvolta si perde in questa vita davanti che non sa bene dove lo porterà, anche se talvolta non sa proprio cosa fare di quella realtà che lo circonda, torna sempre da lei, nel suo malridotto appartamento al sesto piano tra travestiti, prostituite, eroina (soprannominata merda e fautrice di finta felicità), ma anche bontà. Perché il giovane è circondato da umanità e amore, un amore e una umanità gratuita e genuina, senza tornaconti o contro-interessi dietro.
Questa volta Romain riesce nel suo intento di descriverci il dolore della vita e la sua incapacità di far godere a tutti di un poco di felicità attraverso le vesti di bambino poi adolescente algerino. Al tutto aggiunge anche una serie di tematiche fortemente attuali quali l’eutanasia (chiamata nel testo abortimento), l’aborto, la vecchiaia, la solitudine, la famiglia di nascita e quella che nel concreto ti cresce, il deperimento dell’essere umano, la demenza senile, le persecuzioni, le discriminazioni, e molto molto altro ancora.
Il risultato finale di questo testo dal grande contenuto e da una penna rude ma fluente che ricrea una perfetta fotografia dei fatti narrati e della realtà sociale passata e presente? È quello di un libro amaro e disturbante che attrae e respinge l’avventuriero che è combattuto sul se andare avanti o fermarsi, anche se poi non può lasciare gli avvenimenti e quindi giunge sino alla loro conclusione, fino cioè a quell’epilogo dal retrogusto amaro che si manifesta nell’amore filiale puro ma che eppure è così acre, doloroso e profondo che necessita di una, due, tre riletture onde sincerarsi di aver davvero capito bene. Da non perdere.
«I vecchi valgono come tutti gli altri, anche se calano. Sentono quello che sentiamo voi e io e certe volte questo li fa soffrire ancora più di noi perché non si possono più difendere».
«Non occorre aver paura della felicità. È soltanto un buon momento che passerà.»