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L'UCCELLO PUO' INNAMORARSI DEL PESCE?
“Nostro padre aveva ragione, il tempo non scorre, ma è. In un mondo così, tutte le cose che saremo o siamo stati, le siamo. Ma poi, in un mondo così, chi siamo deve essere tutte le cose.”
Negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso riscosse una grande notorietà negli Stati Uniti una bambina prodigio, Philippa Schuyler, che suonava il pianoforte come una concertista consumata e che era stata concepita come un singolare esperimento genetico dai suoi genitori, un padre di colore e una madre bianca, i quali erano convinti che i matrimoni interrazziali potessero produrre una discendenza migliore, oltre a risolvere molti dei problemi sociali della nazione. Nel romanzo “Il tempo di una canzone” si assiste a una unione simile, pur senza le motivazioni eugenetiche dei coniugi Schuyler, tra Delia Daley e David Strom, lei una ragazza nera lontana discendente di una famiglia di schiavi del Sud, lui un ebreo tedesco emigrato in America dopo l’avvento del nazismo, i quali si innamorano nel corso del famoso concerto tenuto nel 1939 dal soprano Marian Anderson al Lincoln Memorial di Washington, scoprendo nell’altro una identica passione per la musica. Siamo alla fine degli anni ’30, un’epoca in cui “l’amore tra un bianco e una nera è un crimine peggiore del furto, punibile con la stessa severità dell’omicidio colposo.” Chi ha visto “Loving”, il film di Jeff Nichols tratto dalla storia autentica di una coppia mista che nel 1958 in Virginia venne arrestata e condannata ad un anno di detenzione e all’esilio venticinquennale per aver violato le leggi dello Stato, ricorda che in moltissimi stati dell’Unione era tassativamente proibito per un uomo bianco sposare una donna nera e che, laddove ciò era invece permesso, l’intolleranza della società rendeva comunque questi accoppiamenti difficilmente praticabili. Si può così capire la portata rivoluzionaria della scelta di Delia e di David di condividere le proprie vite e dare alla loro prole l’opportunità di superare l’odiosa discriminazione razziale del loro tempo. “Chi siamo?” chiedono a più riprese i due JoJo, Joey e Jonah, ai loro genitori, e la risposta è sempre la stessa: “Voi siete quello che sceglierete di essere”. Il padre, fisico, espone addirittura la cosa in termini matematici: i ragazzi potranno essere A, B, sia A sia B, né A né B. “Pensavano tutti e due che la famiglia dovesse avere la meglio sulla realtà. […] Un nobile esperimento. Quattro scelte, ognuna delle quali prefissata.” Il romanzo, nella sua accezione immediata, è proprio la storia di questo esperimento, narrato dal secondogenito Joey alternando diversi piani temporali, il passato prossimo (la cronaca della travolgente ascesa del fratello cantante a stella di prima grandezza nel panorama musicale internazionale) ed il passato remoto (il resoconto dei primi anni di matrimonio dei coniugi Strom). Se all’inizio tutto sembra funzionare a meraviglia (la famiglia che ogni sera si riunisce allegramente intorno al pianoforte sfidandosi nel “gioco delle citazioni musicali”, i due fratelli che si impongono brillantemente negli studi e nella carriera musicale), retrospettivamente scopriamo che l’edificio messo in piedi da Delia e David è pieno di crepe, che l’esperimento, lungi dal realizzare “le magnifiche sorti e progressive” sognate dai due, è destinato al fallimento. La Guerra Mondiale, a cui l’America partecipa per garantire all’Europa e al mondo intero la libertà minacciata dalla dittatura nazista (e a cui David, in quanto fisico partecipante al Progetto Manhattan, dà il suo contributo lavorando alla realizzazione della bomba atomica), nasconde la vergognosa situazione di discriminazione, di privazione dei diritti e di emarginazione sociale a cui è soggetta in patria una larga percentuale della popolazione, quella afro-americana. Per Delia, adesso che è sposata, “anche i bisogni più semplici divengono irraggiungibili. Vorrebbe fare una passeggiata per la strada con suo marito senza dover fingere di essere la sua donna di servizio. Vorrebbe potergli dare il braccio in pubblico. Vorrebbe andare al cinema con lui o uscire a cena senza essere importunata. Vorrebbe tenere il proprio figlio sulle spalle, portarlo con sé a fare spese, senza mozzare il respiro all'intero negozio. Vorrebbe tornare a casa almeno una volta non completamente avvelenata. Non accadrà mai nel corso della sua vita. Ma deve accadere in quella di suo figlio.” L’utopia di un mondo senza divisioni di razze viene ostacolata non solo dal razzismo della società bianca, ossessionata dalla purezza della razza e dal pedigree, asserragliata a difesa del principio che anche una sola goccia di sangue nero è sufficiente a macchiare indelebilmente la discendenza, ma è anche contrastata – dicevo – dall’opposizione della comunità di origine, che vede in questo tentativo una rinuncia alla lotta senza quartiere intrapresa fin dai tempi della schiavitù, un asservimento alla supremazia culturale dei bianchi. La scomunica comminata dal padre di Delia (che fa sì che i suoi figli crescono senza poter conoscere i nonni, gli zii e i cugini) decreta simbolicamente la sconfitta della rivoluzionaria famiglia Strom. “L’uccello e il pesce possono innamorarsi (come recita un antico proverbio ebreo), ma per loro l’unico nido possibile è quello che non c’è”. Non esiste la possibilità di scegliere veramente chi essere: se Joey e Jonah non sentono sulla loro pelle questa impossibilità è solo perché durante la loro giovinezza vivono nel mondo protetto e ovattato dei conservatori e delle sale da concerto, al riparo dalla violenza e dalle brutture della realtà (“nelle sale da concerto, santuari protetti dal suono vero del mondo, noi ci nascondevamo”). La disgregazione familiare è totale: Jonah andrà a lavorare in Europa per inseguire egoisticamente il suo successo da predestinato (e non a caso apparendo nelle copertine dei suoi dischi sempre più bianco), mentre Ruth, la sorella minore, si unirà alla lotta delle Pantere Nere per l’affermazione dei diritti della gente di colore. Joey, l’umile, empatico e disponibile Joey, sta nel mezzo: fedele e insostituibile accompagnatore del fratello per lunghi anni, sceglierà alla fine di rinunciare alla remunerativa e prestigiosa carriera concertistica e discografica per rivestire l’oscuro e anonimo ruolo di insegnante di musica in una scuola elementare di un ghetto nero di Oakland, vicino a San Francisco.
E’ curioso come uno dei libri più “neri” della letteratura americana contemporanea sia stato scritto dal “bianco” Richard Powers. Non bisogna però cadere nell’errore di considerare “Il tempo di una canzone” come un romanzo incentrato esclusivamente sul razzismo e sulla condizione della popolazione di colore negli Stati Uniti degli ultimi decenni. Sarebbe troppo riduttivo e fuorviante, e soprattutto non renderebbe ragione alla strabiliante ricchezza tematica del romanzo. “Il tempo di una canzone” è sì un libro sulla discriminazione razziale (ci sono l’”I have a dream” di Martin Luther King e il Black Power, Rodney King e le rivolte nei ghetti, oltre ovviamente alle tragedie individuali, dolorose e terribili, che si accaniscono sui personaggi), ma è anche – e forse di più – un’opera sulla musica e sul tempo. Nei suoi romanzi Powers mescola abitualmente scienza e arte (la genetica, la musica e l’informatica in “The Gold Bug Variations”, la fotografia in “Tre contadini che vanno a ballare”): qui musica e fisica, scale e accordi musicali da una parte, e teoria della relatività e quanti dall’altra, creano un connubio sorprendente e originale, che l’autore porta avanti con una prosa impegnativa ma affascinante, al punto che anche chi, come me, è abbastanza digiuno di note e di partiture, di Bach e di Dowland, di Einstein e di Schrodinger, riesce ad amare quello che i personaggi suonano e cantano o a comprendere le asserzioni scientifiche di David, come se fosse lì con loro ad ascoltare un lied di Schubert o a fare domande sulla natura del tempo.
La musica e la fisica sono i grimaldelli che i protagonisti utilizzano per scardinare il determinismo della storia. Per Jonah, la musica è un luogo cristallizzato dove il tempo si può fermare, anche se solo per lo spazio di qualche battuta, e i miracoli realizzarsi nella perfezione di un canto che non appartiene a questo mondo. Come l’Orfeo del mito, Jonah sembra perfino in grado di riportare in vita per qualche istante, durante l’esecuzione di un brano, la madre morta (“Nel tempo senza tempo che gli ci vuole per raggiungere la cadenza, la canzone comincia ad agire. Lei sorge alle sue spalle e lo segue, come hanno promesso gli dei. Ma nell'eccitazione della vittoria del suo brano, Jonah scorda il divieto, e si volta. E nel suo viso sgretolato di gioia, mentre si volta, lo vedo che guarda mamma scomparire per sempre”). E quando più tardi decide di dedicarsi a un repertorio di sola musica rinascimentale, la sua scelta anacronistica è un inconscio tentativo di violare le leggi del tempo, di risalire il corso della storia fino “al momento prima della conquista, prima della tratta degli schiavi, prima del genocidio”, prima cioè che la razza si ergesse come il perno discriminatore della società americana. Ne “Il tempo di una canzone” il tempo procede in entrambe le direzioni. In un romanzo letto di recente, “4 3 2 1” di Paul Auster, il protagonista asseriva che il tempo andava sia avanti sia indietro perché ogni passo nel futuro si portava dietro un ricordo del passato. Qui si va ancora oltre, perché non c’è solo la memoria del passato, ma addirittura la memoria del futuro. C’è una bellissima scena in cui la giovane madre, ascoltando la sua piccola Ruth cantare una canzone, vede all’improvviso, con una sorta di sguardo profetico, la figlia cresciuta che canta la stessa canzone al suo funerale. “Il suo non è tanto un anticipare quanto accadrà, ma un ricordarlo. Perché se la profezia non è altro che il suono della memoria che si fissa, la memoria deve già contenere in sé tutte le profezie ancora da avverarsi”.
Powers sembra abolire la dimensione cronologica del tempo (“Non c’è divenire, c’è solo l’è”), e questo paradosso si materializza in un luogo iconico, il Lincoln Memorial di Washington, dove i personaggi si ritrovano in tre momenti diversi della loro storia: il concerto del 1939 di Marian Anderson, il comizio di Martin Luther King del 1963 e la Million Man March di Louis Farrakhan del 1995. Nella grande spianata del Mall si realizza un vero e proprio black-out temporale, al punto che se il raduno di King si confonde agli occhi di David con il concerto di ventiquattro anni prima in cui egli aveva conosciuto la futura moglie e il suo io si dissolve tra presente e passato, nell’adunata più recente si realizza compiutamente la circolarità del tempo e si ritorna al 1939: il ragazzino che si è perduto e che Delia e David aiutano a ritrovare la sua famiglia tra le migliaia di persone accalcate intorno alla statua di Lincoln altri non è che il figlio di Ruth, messaggero venuto a portare un messaggio dal futuro (“L’uccello può innamorarsi del pesce”) ai due novelli fidanzati. “Il tempo di una canzone” è pieno di queste cose, messaggi in una bottiglia lanciati nel mare del tempo per essere raccolti da altre generazioni (la criptica frase-testamento di David: “C’è una diversa lunghezza d’onda per ogni direzione in cui si punta il telescopio”). Il sogno racchiuso nel romanzo è quello di poter vivere le proprie vite per sempre. Sulle curve temporali che David studia forsennatamente nei giorni precedenti la sua morte “gli eventi possono muoversi continuamente verso il proprio futuro intanto che si riavvitano sul proprio passato”: è forse, come intuisce Joey che lo veglia al suo capezzale, l’estremo, commovente tentativo compiuto dall’uomo per tornare dalla moglie morta quindici anni prima, per mandarle un messaggio e correggere tutto ciò che è accaduto nel passato.
Richard Powers sa elevare una storia dalla forte connotazione politico-sociale alle vette della poesia più sublime. In un certo senso mi ricorda il Jonathan Lethem de “La fortezza della solitudine”, il quale sapeva sublimare attraverso la fantasia una storia abbastanza prosaica (ragazzo bianco costretto a crescere in un quartiere completamente nero). Quello di Powers è comunque uno stile estremamente personale. La sua scrittura non è indubbiamente facile: il retroterra musicale e scientifico dell’autore si fa sentire eccome, con lunghe e fluenti digressioni sulle esibizioni concertistiche dei due fratelli e sul lavoro accademico del padre; eppure si può parimenti affermare che in queste righe non c’è mai nulla di troppo tecnicistico, che il linguaggio non appare mai riservato ai soli iniziati. Al contrario, “Il tempo di una canzone” affascina per la prosa avvolgente, densa, lirica, ricca di similitudini e di analogie, di aggettivi che ingentiliscono la scrittura temperando i minuziosi tecnicismi e i sempre precisi riferimenti culturali. Quando Ruth canta accompagnata al piano dal fratello, “la sua melodia, tenuta, galleggiava sulle modulazioni che accennavo passo dopo passo come la luce della luna su una piccola imbarcazione alla deriva.”. E quando è Jonah a cantare, , “il suo calore ti penetrava nelle orecchie come una confidenza sussurrata, come un amico di cui ti eri dimenticato. […] Per lo spazio di un’ora, lungo un’estensione di tre ottave, mio fratello era un costruttore di grazia.” E ancora: “E’ così che la musica usciva da lui. Seta gettata sopra l’ossidiana. Il minuscolo cardine di un trittico in avorio delle dimensioni di una noce. Un cieco, perso all’angolo di una città invernale. Il disco di una luna irata tra i rami di una notte senza nubi.” Quella di Richard Powers è davvero una scrittura memorabile, di altissimo livello, un labirinto in cui è bello perdersi, anche al prezzo di smarrire di quando in quando il filo della trama, di dimenticare la cornice della storia.
Indicazioni utili
"La fortezza della solitudine" di Jonathan Lethem
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