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Londra-Shanghai, un secolo fa
Quando i fantasmi dell’infanzia danno il senso e la missione di una un’intera vita: li insegui ossessivamente per liberartene, salvo poi sentirti improvvisamente stanco, svuotato, leggero, inutile, solo e spaesato.
Questo mi sembra ci voglia dire Kazuo Ishiguro tramite la storia di Christopher Banks, figlio di inglesi trasferitisi a Shanghai all’inizio del ‘900, divenuto detective di professione per poter indagare un giorno sulla loro misteriosa scomparsa.
Christopher trascorre un’infanzia felice a Shanghai, completa ottimi studi a Londra e costruisce una carriera di successo che gli apre le porte dei ricevimenti più esclusivi e gli regala fama in tutta l’Inghilterra; eppure rimane prigioniero di un’ombra che si porta dentro, che lo rende irrequieto e insoddisfatto fino a quando non riuscirà a fare piena luce sul passato.
Dovrà guardare in fondo all’abisso, tornare nella Shanghai martoriata dalla guerra tra Chang Kai-shek e i comunisti, attaccata e occupata dai giapponesi, violentata dai signori della guerra, sfibrata dal traffico di oppio, tradita, sfruttata e venduta dagli opulenti occidentali, lasciata alla mercé di ogni più turpe malaffare.
Ishiguro segue uno schema già sperimentato con “Quel che resta del giorno”: il protagonista ricorda e racconta avvenimenti appena trascorsi e partendo da questi apre ampie finestre su un passato più remoto. In questo modo ogni avvenimento trova un suo ordine naturale e ogni emozione viene filtrata, rivista e modellata dalla memoria. E’ una tecnica che consente di ottenere un gradevole equilibrio tra emozione e riflessione, che mi sembra la cifra stilistica dell’ultimo premio Nobel per la letteratura.
Le prime pagine hanno un andamento lento, l’ambientazione è la società stanca, appesantita e avviata al tramonto dopo la Grande Guerra, società che costituisce il terreno fertile nel quale gli spiriti animali di Christopher e di altri giovanotti emergenti affondano unghie e denti e conquistano il loro spazio vitale.
Le pagine finali, nella Shanghai degli anni trenta, di grande interesse anche per il contesto storico, sono concitate e affannose come un incubo, un’allucinazione al termine dalla quale ci si sente spossati, svuotati e attoniti. Le ombre si diradano, il male emerge nitido e nauseabondo e colpisce con ferocia.
Dopo, ogni cosa, ogni attimo di vita sarà un trascurabile dettaglio privo di importanza. Si potrà vivere da sopravvissuti, più o meno serenamente fino alla fine dei propri giorni.
La netta frattura tra i primi due terzi del romanzo, con pagine morbide, eleganti e precise come un prato inglese, e le ultime concitate, allucinate, inverosimili cento pagine lascia in prima battuta piuttosto perplessi. Il sapore arriva subito e non dispiace, ma il senso?
Il senso e l’unità dell’opera arrivano dopo, almeno per me è stato cosi, e qui ho cercato di spiegare il messaggio che ho colto.
Non so se queste siano state le vere intenzioni dell’autore e mi interesserebbe molto conoscere le opinioni di altri lettori.
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