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Gli insetti preferiscono le ortiche
 
Gli insetti preferiscono le ortiche 2018-05-08 09:58:04 kafka62
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
kafka62 Opinione inserita da kafka62    08 Mag, 2018
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SCENE DA UN MATRIMONIO NIPPONICO

Per riuscire a definire in maniera appropriata l’arte di Tanizaki, o per lo meno ciò che di essa è normalmente in grado di percepire un lettore occidentale non avvezzo alla cultura nipponica, mi sembra non ci sia niente di meglio che prendere in prestito le suggestive immagini del teatro Bunraku che l’autore utilizza a profusione nel suo romanzo “Gli insetti preferiscono le ortiche”. Il protagonista Kanamè, ad esempio, assistendo ad una rappresentazione di marionette (il Bunraku appunto), si sofferma a meditare sulla fissità dei personaggi che si muovono sulla scena e sulla schematizzazione degli intrecci narrativi. Ciò che in apparenza è immobilità, mancanza di espressione, stilizzazione, si rivela agli occhi del tipico uomo giapponese come l’interiorizzazione di una vasta gamma di sentimenti (la felicità, l’ira, la tristezza) che non trova quasi mai nella tradizione del Sol Levante una caratterizzazione più marcata; allo stesso modo la forma immutabile e ripetitiva dei testi classici, che si tramandano inalterati da innumerevoli generazioni, fa sì che il loro vero significato debba essere ricercato sotto la superficie letterale, dietro gli oscuri simbolismi contenuti in quelle che a prima vista potrebbero essere scambiate per vuote figure retoriche. Qui risiede la magia dell’arte giapponese, in questo dire le cose, anche le più profonde, senza quasi esprimerle, nel descrivere situazioni sottili e articolate in maniera sorprendentemente semplice. Il romanzo di Tanizaki, pur essendo stato scritto in un’epoca – l’inizio del XX secolo – in cui gli influssi occidentali iniziavano a penetrare anche in Estremo Oriente, non fa eccezione a questa regola: la storia di Kanamè e Misako, due coniugi che ormai da anni non si amano più e che sono in procinto di compiere il passo decisivo della separazione, è psicologicamente molto raffinata e complessa e vi si avverte una violenta tensione drammatica, purtuttavia è raccontata (e in questo sta a mio avviso la sua bellezza) in maniera sfumata e leggera, in punta di piedi se così si può dire, proprio come in uno spettacolo di Bunraku.
Kanamè, un misto di Zeno e di Oblomov in versione orientale, è un uomo lacerato da un’invincibile predisposizione caratteriale alla passività e alla irresolutezza. Posto per la prima volta in vita sua di fronte a uno stato di cose (il fallimento del suo matrimonio) che richiede il coraggio di troncare decisamente con il passato e di accollarsi sgradevoli responsabilità, egli è incapace di dare corpo ai suoi proponimenti, preferendo invece cullarsi nella patetica illusione che le cose andranno a posto da sole. I pretesti per rimandare il momento della separazione sono molti: la paura delle reazioni della gente, la pietà per la moglie, la necessità di preparare il piccolo figlio Hiroshi alla traumatica novità, l’opportunità di ponderare il più a fondo possibile tutte le conseguenze del divorzio, addirittura la convenienza di attendere la stagione meteorologicamente più propizia. Ma questi ostacoli sono, a ben vedere, solo dei falsi alibi di cui si ammanta la vigliaccheria di Kanamè. Quando infatti una terza persona interviene a rimuoverli, come nel caso del cugino Takanatsu che rivela a Hiroshi quali sono i reali rapporti tra i suoi genitori, la situazione non viene ad essere per questo meno ingarbugliata. In realtà, Kanamè preferisce, pur senza ammetterlo, una lunga e penosa infelicità ad una breve e straziante tristezza, giacché la prima, vale a dire la perpetuazione di un consunto simulacro di armonia coniugale, non richiede l’assunzione di alcuna responsabilità. Kanamè si vanta di essere un uomo aperto, moderno e tollerante, ma quando si risolve a consentire che Misako frequenti in segreto il suo amante, noi sappiamo che si tratta solo di una velleitaria reazione ad un complesso di colpa divenuto insostenibile, dal momento che egli non è mai stato capace di offrire un po’ di comprensione alla moglie che trascorre le notti a piangere silenziosamente nel suo letto. Inoltre, il suo coraggio non giunge fino ad ammettere esplicitamente che la separazione è per loro l’alternativa migliore. Kanamè lascia sempre oscillare nel vago la risoluzione definitiva. Il fatto di avere parlato apertamente con Misako dei loro rapporti coniugali gli fa ritenere di avere agito abbastanza: da quel momento in poi sarà il destino a decidere per lui, più che mai determinato a scivolare tra gli avvenimenti senza esserne coinvolto. Il risultato è quello di procrastinare sempre più la decisione conclusiva, e fin dalle prime pagine del libro è facile indovinare che essa non giungerà mai. Dal canto suo la moglie (che la chiusa società giapponese del tempo, non dimentichiamolo, costringe ancora ad un ruolo di assoluta subordinazione e dipendenza rispetto al marito) sembra soffrire di un’analoga incertezza. Se Kanamè vuole lasciare che sia la moglie a prendere l’iniziativa, dato che per il momento non vi è nessuna che egli desideri sposare mentre la moglie ha il giovane amante Aso ed è quindi probabile che si risolva per prima al grande passo, per Misako il fatto di essere lei sola ad avere un amante e quindi a poter contare di essere felice dopo il divorzio rende più difficile la decisione. Così, in questo stato di reciproca irresolutezza, “come se tenessero una bacinella d’acqua in bilico tra loro, aspettando di vedere da che parte si sarebbe spontaneamente rovesciata”, i due coniugi continuano all’infinito la loro dolorosa commedia familiare, ognuno compreso nel suo asfittico ruolo.
Non ci è dato sapere quale sorte sia stata loro riservata, poiché Tanizaki ha preferito dare al romanzo una sorta di finale aperto. Piuttosto, l’ultimo delicato capitolo aggiunge un altro importante tassello alla problematica personalità di Kanamè. Il suo fallimento matrimoniale, mi sembra di capire, è forse una conseguenza del mutare dei tempi. La società che fa da sfondo alla storia di Misako e Kanamè è una società per molti versi suggestionata dai modelli di vita occidentali: ai canti popolari viene preferito sempre più spesso il jazz, i cinematografi iniziano a sostituire gli antichi teatri di marionette e le donne imitano le attrici di Hollywood. Se la vecchia generazione, impersonata dal padre di Misako, resta orgogliosamente aggrappata alla tradizione, i giovani non possono fare a meno di sentire il fascino dei tempi nuovi. Anche i rapporti tra uomo e donna sono sconvolti da questa ondata di rinnovamento. Kanamè, infantilmente portato a idealizzare la donna, non è costituzionalmente adatto ad amare l’emancipata Misako: “Una donna che abbia idee proprie e sensibilità – pensa tra sé – col passare degli anni diventa noiosa e sgradevole; è quindi meglio innamorarsi di una che si possa amare semplicemente come una bambola”. Di qui l’ammirazione, mista ad invidia, per il vecchio suocero, circondato dalle dolci premure della donna-bambola O-hisa. Nell’immagine finale del suo diafano viso che fa capolino nella stanza densa di ombre si schiude forse a Kanamè la possibilità di cambiare il corso della propria vita, di prendere finalmente una decisione. O-hisa rappresenta la donna di una mitica epoca dimenticata, di un tempo in cui i rapporti tra i sessi erano semplici e le donne erano le quiete e sottomesse serve dell’uomo. “O-hisa era senza dubbio una visione lasciata indietro da quei tempi remoti”, così come le marionette del Bunraku, che vengono tramandate di generazione in generazione. E’ probabilmente in questo parallelismo che si giustifica l’ossessiva presenza nel romanzo di numerosi capitoli dedicati al teatro popolare: in essi si rispecchia la forza saggia e serena della tradizione, allo stesso modo in cui nei bellissimi capitoli VII ed VIII si avverte l’agitarsi di nuovi, inquietanti fermenti esistenziali. Questo è il Giappone, sembra dirci Tanizaki, una magica, affascinante ed eternamente irrisolta commistione tra vecchio e nuovo, tra passato e presente.

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Commenti

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Giulio, la tua recensione è interessante. Ho letto questo libro vari anni fa; non l'ho trovato brutto ma ho capito che l'autore non rientra affatto tra gli scrittori giapponesi che preferisco, quali Soseki, Kawabata, Ariyoshi, Mishima, Dasai...
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kafka62
11 Mag, 2018
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Grazie Emilio, e complimenti per la tua conoscenza della letteratura giapponese. Io devo confessare di aver letto solo questo Tanizaki e un paio di Murakami. La (scarsa) conoscenza che ho della cultura nipponica è avvenuta soprattutto grazie al cinema di Kurosawa, Mizoguchi, Ozu ed altri registi di quella generazione. Ho però in programma di leggere a breve "Mille gru" di Kawabata.
Giulio, se leggerai "Mille gru", sappi che c'è la continuazione in "Il disegno del piviere" : formano una storia unica.
In risposta ad un precedente commento
kafka62
14 Mag, 2018
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Grazie, Emilio, per questa dritta. Ne terrò conto.
4 risultati - visualizzati 1 - 4

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