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Cupa onnipresenza
“ …Il bambino urlava la sua maledizione al mondo tenebroso e maleodorante in cui era nato…”
In un paesaggio nudo e spettrale, illividito da disperanti e silenziose presenze indirizzate verso l’ ignoto, ombre che si inseguono vicendevolmente, una giovane donna alla ricerca di un figlio sottrattole nell’ istante in cui è venuto al mondo, il fratello di lei ( responsabile della sparizione ) incamminatosi per ritrovarla e poi tre uomini a chiudere un inimmaginabile cerchio di solitudine e follia.
Seguiamo il duro cammino di questo viaggiatore diretto a sud lungo una strada solitaria con la propria ombra che si agita obliqua e malefica a rompere l’ immobilità della scena mentre la donna ha la faccia consumata dal tempo ed è alla ricerca di qualcuno, qualcuno e basta.
Due figure figlie di una colpa condivisa unite dal cerchio di una vita improvvisamente spezzata, costrette ad un viaggio sfiancante nella consustanziale immobilità di un silenzioso ed azzurro mondo dei morti.
Nutrita dalla propria perfetta noncuranza la crudeltà degli uomini rende i tempi duri e la loro cattiveria ci fa domandare perché Dio non abbia ancora spento il sole e se ne sia andato.
Un microcosmo impregnato di vite tenebrose senza ordine, gerarchia e segno di appartenenza al creato, in cui tutto è appeso in una immobilità abbagliante, dal sole che sembra essersi fermato alla notte buia e stellata.
Voci, ombre, volti, prede, predatori, fiere, colori indefiniti in una alternanza di luce e buio, dialoghi forti, spettrali, sordi, tremendamente fisici, un’ aria tesa ed allucinante per un inferno intriso di presenze e nullità che assurdamente tracima il sapore e l’ odore di una umanità sfiancata e debordante.
Una parabola apocalittica di una quotidianità incastonata nella violenza di gesti e parole e nella fissità di attimi prolungati ed azioni ripetute, vite legate da sangue e necessità, spietatamente spezzate da un destino che pare già scritto e selvaggiamente indirizzato dagli uomini e dalla loro deprecabile follia.
Alla fine vittime e carnefici, vincitori e vinti, si fondono in una unità indistinta esposta e fotografata da un obiettivo che ne fissa i singoli attimi, limitandosi ad una ferma e rabbiosa rappresentazione del reale.
Questo l’ universo di McCarthy, duro, spietato, allucinogeno, che ci lascia a bocca spalancata e con il fiato corto, un violento pugno stordente senza alcuna possibilità di replica, tutto accade all’ improvviso per essere spazzato via dal soffio di una atroce normalità ed indifferenza, da parte nostra niente altro che ascolto, cupa riflessione ( sull’ umana specie ) e silenzio.
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