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Gli amori malati non finiscono mai...
Eszter, ormai quarantacinquenne, vive o meglio sopravvive, con la cara Nunu, nella vecchia casa, ereditata dal padre, su cui peraltro gravava una piccola ipoteca.
Le due donne, sia pur a fatica, provano a tirare avanti con i proventi della vendita dei frutti che il giardino riesce loro a garantire, circondate dall’affetto e soprattutto dall’aiuto, anche economico, di pochi amici fidati: il buon Tibor e il notaio Endre.
E’ fine settembre quando un telegramma di Lajos arriva, dopo ben vent’anni, a rianimare quelle esistenze piatte, prive di slanci; vite che giorno dopo giorno, si erano srotolate senza propinare sorprese in un divenire tristemente ciclico e ordinario.
Per utilizzare una metafora tanto cara a Marai, bastano poche parole fissate sulla carta “Arriveremo domani mattina. Saremo in cinque” a ridare la carica a quel vecchio meccanismo ormai inceppato.
La casa e l’intero paese magicamente riprendono a vivere perché Lajos, l’unico uomo che Eszter abbia mai amato, sta tornando sul “luogo del delitto” dove deve a tutti qualcosa: quattrini, giuramenti e promesse mai mantenute.
Il carillon comincia a muoversi e ognuno, come una pedina perfettamente inserita sulla giostra e saldamente legata all’ingranaggio, si agita, si prepara alla visita. Lo spettacolo è appena iniziato.
Esterz riordina i vecchi ricordi, indossa l’abito più bello e indugia davanti allo specchio. Il tempo, per lei, era stato clemente, nonostante i pochi fili bianchi che si nascondevano tra il biondo chiaro della sua capigliatura e le sottili rughe che le contornavano gli occhi, aveva mantenuto la stessa corporatura. Era alta, dritta e ben proporzionata.
La veranda accoglie anche Tibor e Laci, fratello di Estzer, che scelgono di presenziare all’evento, d’altronde tutti sono indissolubilmente legati da una sorta di alleanza che avevano stretto contro quell’uomo. Bisognava unire le forze per sconfiggere un nemico comune a cui di fatto non erano riusciti a sottrarsi e che dopo anni si riaffacciava nelle loro vite per portare a termine qualcosa che aveva solo iniziato. (“Com’è strana questa lotta! Ho fatto di tutto per mettermi in salvo ma il nemico continuava a seguirmi. Ora so che non poteva agire diversamente: siamo legati ai nostri nemici, che a loro volta non sono in grado di sfuggirci”).
Da assidua lettrice mi è capitato, con una certa frequenza, di imbattermi in personaggi detestabili e Lajos è uno di questi, sale di diritto in cima alla mia personalissima top ten, forse secondo solo al Capitano Justiniano di “Teresa Batista Stanca di Guerra”, per intenderci, l’orco che si divertiva a deflorare e seviziare bambine povere, spesso vendute dalle loro stesse famiglie per una manciata di cruzeiros e che ad ogni stupro aggiungeva un’ anello, alla sua collana d’oro, per celebrare l’ennesima preda che piegava alle sue insaziabili voglie.
A molti, questo paragone potrebbe risultare azzardato, ma in realtà ci troviamo di fronte a due veri e propri predatori sociali.
Il commerciante di Jorge Amado è un sadico che si serve dell’abuso fisico (pugni, percosse, frustate, bruciature ai piedi con il ferro da stiro) e di atroci prevaricazioni per sottomettere e schiavizzare le sue giovani vittime; Lajos invece è un burattinaio più subdolo, e non per questo meno spietato, che ricorre a pericolose manipolazioni mentali o a veri e propri lavaggi del cervello, per ridurre il malcapitato di turno in uno stato di annichilimento psicologico ed Eszter, più di altri, ne è la prova.
Eszter ovvero la donna che non solo accetta supinamente la propria distruzione, ma collabora con il suo carnefice firmando quell’atto di donazione che la spoglierà dell’ultimo bene di cui è ancora in possesso: la casa e con essa la garanzia di una vecchiaia serena.
Sigla la resa, senza protestare, e aspetta la morte che è “pace” e “assoluzione”.
A nulla serviranno le raccomandazioni del notaio e amico Endre, i suoi tentativi di impedire quell’accordo scellerato che l’avrebbe strappata dalla “modesta isoletta su cui si era rifugiata dopo il naufragio”. Eszter ormai ha deciso, inconsapevolmente (“Sì, risposi involontariamente; avevo l’impressione di parlare in sogno”), ma ha deciso.
Non so se Marai abbia avuto modo di leggere gli studi di Hervey Cleckley, se ne abbia subito l’influenza, ma certamente ha affidato alla narrazione un protagonista maschile che riassume in sè, quasi didascalicamente, tutte le caratteristiche del perfetto narcisista maligno, consegnando a noi lettori un piccolo romanzo, per alcuni versi estremamente attuale, che coglie e sviluppa le insidie del processo di seduzione psicopatica, lo stato d’animo di chi subisce una violenza che non lascia lividi, quella psicologica.
Lajos fece ingresso nella famiglia di Eszter perché amico del fratello Laci. I due erano identici “nel corpo e nell’animo”. Erano inseparabili. Ai tempi dell’università condividevano non solo lo stesso appartamento, ma anche i sogni, il dolce far nulla e il loro passatempo preferito: raccontare frottole.
Venivano considerati grandi promesse, pur non avendo uno spiccato talento se non quello di fantasticare inventando storie strampalate, ma di fatto non realizzarono nessuno degli obiettivi che si erano prefissati, e finirono con il partorire un topolino. Abbandonarono gli studi a metà percorso, Laci per aprire una bottega in cui vendeva manuali scolastici e oggetti di cancelleria, Lajos invece, da instancabile megalomane, continuò a sognare in grande, e si lasciò sedurre dalla politica, anche se non aveva una sua convinzione. Infatti dopo aver militato tra le varie file di vari partiti, anche di segno opposto, fu messo alla porta unanimemente da tutti.
Già da qui si intravedono almeno due aspetti che sono propri dei narcisisti perversi, innanzitutto l’incapacità di portare a termine qualsiasi progetto. Sono corridori a breve distanza che collezionano una serie di fiaschi perché si annoiano facilmente. Con estrema rapidità riescono ad abituarsi a qualsiasi persona o attività, consumano- fagocitano- svuotano e poi passano ad altro. Vivono di “novità”, di quel senso del “pericolo” di cui parla lo stesso Lajos, citando a sproposito Nietzche, che li spinge a ribellarsi, non contro qualcosa o qualcuno, ma contro la vita stessa perché in essa non ritrovano nulla di stimolante se non un’appagamento transitorio.
Eva, la figlia di Lajos si dice spaventata, ma anche affascinata dalla “leggerezza” del padre, dalla sua assenza di vincoli interiori, inclusi i suoi doveri di genitore, da come tutto lo lasci indifferente ad eccezione del pericolo di cui egli stesso va a caccia esplorando nuovi orizzonti, vivendo in mezzo agli uomini (“il passatempo più pericoloso”), a costo di uscirne sconfitto, frastornato e depredato.
L’altro aspetto riguarda invece l’uso sistematico della menzogna. Sono bugiardi patologici, impostori patentati e la loro stessa esistenza è un bluff. Ingannare e manipolare la percezione che gli altri hanno della realtà li fa sentire più intelligenti, più astuti, più potenti (“Sembrava che si stesse stropicciando le mani per la gioia, come uno che giocando a carte si accorge stupefatto di aver vinto una partita che credeva di aver perso”).
Lajos mente “come urla il vento”, “come cade la pioggia” con allegria indomabile e soprattutto con un’insolita naturalezza. Piange mentre racconta l’ennesima bugia e se scoperto “passa a dire la verità con la stessa disinvoltura con cui poco prima aveva mentito”. E’ un bugiardo che riesce a guardare, il proprio interlocutore, dritto negli occhi, senza mostrare alcun segno di cedimento.
Per molti, e per la stessa Eszter, queste menzogne potrebbero apparire come il residuo di un ingenuità infantile inconsapevole e priva di malvagità, in realtà spesso sono finalizzate ad attività fraudolente, a vere truffe e imbrogli.
Non a caso Lajos si è dimostrato così bravo a mentire e plagiare gli altri che ,senza troppa fatica, ha ingannato e derubato tutti coloro che in lui riponevano la massima fiducia e che a lui si erano letteralmente consegnati.
Difatti non solo era riuscito a farsi accogliere e benvolere dalla famiglia dell’amico Laci, ma sfruttando il proprio fascino, l’agile oratoria, la capacità di sedurre indistintamente tutti, si era imposto come un piccolo tiranno. In quella casa avvertivano la sua superiorità e ne erano intimoriti. Lajos invece fingeva gentilezza, ma osservava quelle persone con disprezzo, detestava il loro fare provinciale, e silenziosamente li avviava al cambiamento. Iniziarono allora a vestire e a comportarsi in maniera diversa, a leggere i libri consigliati da quello strambo giovanotto (opere peraltro di cui lui conosceva solo il titolo), a vivere al di sopra delle proprie possibilità. In breve tempo creò un vero e proprio rapporto di dipendenza trasformando i membri di quella famiglia in pupazzi da istruire e usare a proprio piacimento.
Si dichiarò follemente innamorato di Eszter, ma poi sposò la sorella maggiore, Vilma. Glielo consentirono.
Attraverso un “sistema invisibile di vasi capillari” fu abile a risucchiare tutto il loro patrimonio, e quando finirono i soldi cominciò a portare via, da quella casa, gli oggetti “come ricordo” - sosteneva (mentendo). Glielo consentirono.
Nessuno si mostrò sufficientemente forte da annullare le “stregonerie” del fachiro indiano che, con il sorriso sulla bocca, “si inchinava con in mano il piattino per riscuotere le offerte”. Lajos potè agire indisturbato diventando un esperto domatore di belve addormentate.
A distanza di vent’anni nuovamente bussa a quella porta “con un piano bell’e pronto” (vi è sempre intenzionalità e calcolo nell’agire di un narcisista maligno) per appropriarsi dell’unico bene di cui non era ancora entrato in possesso, la casa. Eszter ,ancora una volta, glielo consentirà.
Torna e allestisce il suo “teatrino psicopatico” di cui egli è il regista, ma anche l’attore principale. Recita, avvalendosi dell’aiuto di altri collaboratori che gli fanno da spalla (la figlia Eva più di tutti) o che si limitano ad interpretare il ruolo della comparsa. Riporta in scena una vecchia commedia che ormai gli spettatori conoscono a memoria, utilizzando peraltro gli stessi numeri retorici che avevano funzionato in passato. Il copione resta pressochè invariato, ma tutto funziona alla perfezione.
Rispolvera il proprio fascino, il magnetismo, la parlantina, come armi di conquista, e inizia la gara per guadagnarsi la fiducia dell’altro, inventando ad arte bugie tragicomiche, per esempio vince la diffidenza di Nunu, la più scettica del gruppo, consegnandole una lettera (falsa) di un Sottosegretario di stato in cui questi dimostra di avere a cuore il desiderio della donna di diventare un’impiegata postale. Peccato che Nunu con i suoi 70 anni non possa più lavorare.
Si cala nel ruolo del bravo prestigiatore, tira fuori dal cilindro una tartaruga “sensibile alla musica”, fischietta,e invita tutti ad osservare l’animale che allunga il collo -come per rispondere. Gli spettatori ne rimangono storditi. Li ha conquistati e finalmente abbassano la guardia.
Da buon psicopatico, Lajos dimostra ancora una straordinaria abilità nel diventare l’immagine riflessa del suo pubblico, ne intercetta i gusti e i desideri e si attiva per realizzarli. A questo punto il terreno è pronto per assestare il colpo di grazia: ottenere la casa.
E per fare questo sa che dovrà vendersi bene, camuffare il desiderio di dominio e la sua tendenza a distruggere la vita degli altri.
Chi è informato tema di psicopatia, nella figura di Lajos ritroverà quasi tutto: uno spiccato egocentrismo patologico, la completa aridità negli affetti (non conosce l’amore, nemmeno quello filiale) l’inganno perpetrato con precise tecniche della manipolazione come il gaslighting (basti pensare alla vicenda delle tre lettere che avrebbe spedito ad Eszter, probabilmente l’ennesima bugia), le calunnie e il tentativo di scaricare la colpa sugli altri, in primis su Vilma ( l’unica che non può più difendersi perchè deceduta), la vaghezza dei suoi discorsi, l’invenzione di dettagli per rendere più credibili le fandonie che va a snocciolare, la mistificazione, il vittimismo, la teatralità dei gesti, la sua innata capacità di giocare con le emozioni degli altri (il colloquio finale con Eszter ne è una conferma), ma anche un'inspiegabile spietatezza, la totale assenza di empatia (liquida il progetto di spogliare Eszter della sua casa per rinchiuderla in un ospizio come “ una faccenda non così tragica”), la mancanza del senso di rimorso e di vergogna per il danno inflitto (“Dov’è il tuo limite, Lajos? Domandai. Immagino che tutte le persone abbiano un limite interiore grazie al quale attribuiscono una certa misura sia al bene che al male. Ma tu non hai limiti”), e soprattutto l'abgilità con cui altera la capacità di raziocinio del suo interlocutore.
Per i lettori meno attenti è facile simpatizzare con personaggi ,come Teresa Batista, che subiscono una violenza fisica evidente e dunque riconoscibile, faticheranno invece a solidarizzare con una donna, come Eszter ,la cui “stima di se” è così compromessa da portarla ad accettare il suo totale annientamento.
In realtà non dobbiamo dimenticare che Eszter, al pari dell'eroina brasiliana, deve essere considerata una vittima.
Marai, a mio avviso, in questa sua opera, ha avuto il grande merito di rappresentare, con crudo realismo, la devastazione psicologica di chi incappa in un predatore emotivo, dimostrando, anche agli scettici, come uno psicopatico, senza schiaffi o calci, possa comunque trasformare persone forti e sane nell’ombra di se stesse relegandole ad una non-vita.
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Amo parecchio la scrittura di Marai, ma questo libro mi manca.