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La sera è la parte più bella della giornata?
Il maggiordomo Stevens – protagonista assoluto di Quel che resta del giorno di Kazuo Ishiguro - rivede la propria vita trascorsa al servizio di Lord Darlington quando la prestigiosa proprietà viene rilevata da un ricco americano nel secondo dopoguerra: in quest’epoca di sconvolgimenti sociali (“La nostra generazione… vedeva il mondo non come una scala, ma come una ruota”) la professione di Stevens subisce contraccolpi e vengono messi in discussione il ruolo e l’identità di un uomo che della fedeltà, della dignità e del sacrificio ha fatto essenza di vita.
Così, al mondo popolato da lacché (“il problema della lucidatura dell’argenteria”) e gentiluomini e sotto il dominio imperante di Sua Signoria si oppone la nuova visuale che si dischiude a Stevens durante un viaggio-premio da Oxford alla Cornovaglia, in un paesaggio inglese che è misura e compostezza in antitesi a “quegli spettacoli naturali… che si offrirebbero all’attenzione dell’osservatore oggettivo come inferiori proprio per quel loro indecoroso esibirsi”. Il viaggio ha una meta finale: l’incontro con la ex governante di Darlington Hall, una donna che rappresenta la rinuncia all’amore, consumata da Stevens in nome di un ideale superiore (“Fornire il miglior servizio possibile a quei grandi gentiluomini nelle cui mani è riposte davvero il destino della civiltà”).
Il senso della misura e della dignità in qualche modo amplificano, nella percezione del lettore, l’impatto dei sentimenti sempre controllati e soffocati da Stevens: l’amore per il padre (“Come se si augurasse di ritrovare un gioiello prezioso che aveva perduto in quel punto”) da praticare con ostinazione nonostante la decadenza fisica del genitore e durante gli impegni del convegno del 1924; la fedeltà verso lord Darlington anche quando sul nobile aleggiano sospetti politici infamanti (“Sir Oswald Mosley, la persona che fu a capo delle camicie nere, era stato ospite a Darlington Hall, io direi, in non più di tre occasioni…”).
Il finale del romanzo è particolarmente triste e struggente, fitto di domande che irradiano una luce malinconica sulle prospettive di un’esistenza il cui senso vacilla pericolosamente (“Dopotutto che cosa c’è mai da guadagnare nel guardarsi continuamente alle spalle e a prendercela con noi stessi se le nostre vite non sono state proprio quelle che avremmo desiderato?”) sotto i colpi della crisi d’identità.
Giudizio finale: finemente struggente, potentemente malinconico, sottilmente ironico.
Bruno Elpis
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