Dettagli Recensione
Qualcuno almeno saprà che sono qui?
"Spose in fotografia": donne giapponesi venute negli Stati Uniti all’inizio del ‘900, per sposare i connazionali emigrati in precedenza. Questo libro narra di loro.
Come un grande coro di piccole voci, racconta l’abbandono dei villaggi, il viaggio in nave, l’arrivo e la conoscenza dei mariti, il duro lavoro, il nuovo paese. La perdita di identità.
E poi la guerra, Pearl Harbour e la decisione di Roosevelt di considerare “potenziali nemici” i cittadini americani di origine giapponese. Gli avvisi, l’abbandono coatto delle proprie case (e non solo), l’internamento.
La perdita della memoria di sé e nella mente degli altri.
Fatti noti, ma quello che mi ha convinto davvero, in questo libro, è stata la scrittura.
Una voce narrante in prima persona plurale. Un “noi” che sono le ragazze giapponesi sulla nave, prima. E poi le novelle spose, più o meno infelici. Le donne che si sfiancano di lavoro fino a perdere identità e memoria. Le madri che vedono i figli “disimparare” i nomi dei fiori e dei colori in giapponese e vivere “le loro giornate nella nuova lingua” e pronunciare perfettamente la “r” e la “l”.
Le stesse donne che per anni lavorano per e con i nuovi vicini: contadine, governanti, cameriere, lavandaie, negozianti, ma che a un certo punto sono guardate con sospetto, come i loro mariti. Che nascondano armi? Che siano spie?
Costrette ad abbandonare le loro case, i loro negozi, animali, oggetti… a cederli per pochi soldi a rigattieri veri o improvvisati:
“Vicini con cui non avevamo mai scambiato una parola ci avvicinavano nei campi e ci chiedevano se volevamo sbarazzarci di qualcosa. Quel frangizolle, magari? Quell’erpice? Quel cavallo da tiro? Quell’aratro? Quel cespuglio di rose Regina Anna che ammiravano da anni nel nostro giardino? (…) Un altro uomo disse che viveva da solo un una roulotte vicino al cantiere navale e sarebbe stato felice di prendere un gatto usato. “Sa, è dura star soli.” A volte vendevamo in fretta, e a qualunque prezzo, e altre volte davamo via le nostre teiere e i nostri vasi preferiti cercando di non prendercela, perché le nostre madri ci avevano sempre detto: Non bisogna attaccarsi troppo alle cose di questo mondo.”
Viene in mente quello che è successo solo una manciata di anni prima a una certa famiglia Joad in Oklahoma.
E dopo la partenza, il “noi” non sono più le donne giapponesi, ma gli americani.
“Per qualche settimana alcuni di noi continuano a nutrire la speranza che i giapponesi ritornino, perché nessuno ha detto che sarebbe stato per sempre. (…)
Forse avremmo dovuto presentare una petizione al sindaco. Al governatore. Al Presidente in persona. Per favore, lasciateli qui. O semplicemente bussare alla loro porta e offrire aiuto. Se solo, ci dicevamo, avessimo saputo. Ma l’ultima volta che qualcuno di noi lo aveva visto dietro la sua bancarella di frutta, il signor Mori era stato cordiale come al solito. “Non mi ha mai rivelato che stava per andarsene” dice una donna. Eppure tre giorni dopo non c’era più. (…)
Un coro, appunto, in cui ciascuna voce canta una piccola frase che è la sua storia, mai approfondita. Una pennellata che lascia intuire un quadro che non si vedrà mai, perché si è perso nella routine quotidiana, di chi se ne è andato e di chi ha potuto rimanere. Passa una stagione e la memoria si confonde. Si chiamavano Kato o Sato? Ci sono inquilini nuovi, qualcuno si è occupato dei gatti o dei cani. Qualcuno ha stampe giapponesi in casa, che prima non c’erano. Qualche signora usa le bacchette per fermare i capelli. Qualcuno rimpiange quegli inquilini puliti e tranquilli. Qualcuno pensa che – come sempre – ce ne fossero di buoni e di cattivi. E poi si assomigliavano tutti.
E questa scrittura quasi sempre in “noi” (o “loro”), di frasi brevi con soggetto e verbo e molto ripetuti è proprio convincente per narrare queste vite che – da fuori – sembrano tutte uguali. Come tutti uguali sembrano gli orientali. Che però poi sono uguali ai Joad. E a noi, che al giro saranno i nostri occhi a non essere abbastanza azzurri o abbastanza rotondi.
Vi lascio nel commento un piccolissimo saggio, dal giorno della partenza per l’internamento e… vi consiglio sicuramente di leggerlo.
(Nota dolente. L’edizione italiana è un tantino approssimativa, specie per quanto concerne la punteggiatura).
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Leggerò altro di questa scrittrice.
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