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Il mistero del cantiere
Era da tanto tempo che non trovavo un romanzo che mi entusiasmasse tanto. Il cantiere è bellissimo come storia e come scrittura. E’ un romanzo Kafkiano. Onetti è meno cupo del vero Kafka, meno contorto ma altrettanto nebuloso, forse più malinconico e decadente. La storia è difficile da seguire sul piano della realtà, risulta strana, surreale (pur mantenendo una sua logica), e proprio per questo fa entrare in una dimensione simile a quella del sogno dove cose, dialoghi e personaggi hanno contorni imprecisi, fluttuanti, interessanti, magnetici, allusivi di altro. Ogni cosa potrebbe anche avere un significato allegorico: il cantiere, l’affannarsi dei personaggi per tenere in piedi una finzione quale quella di fare un lavoro sensato, di avere un ruolo sociale o relazioni “normali”. Il non senso affiora in ogni pagina dalle rovine del cantiere. I personaggi sono bellissimi: il protagonista Larsen, in cerca di un improbabile riscatto sociale, Petrus, il padrone del cantiere, i due dipendenti, le donne. I personaggi sono tutti strani, hanno tra loro relazioni nebulose e non totalmente afferrabili. Sono poliedrici e contraddittori. Per esempio Larsen: vecchio, decrepito con la pancia ma anche pieno di energia, con pretese per lo meno formali da seduttore. La donna di Galvez, uno dei dipendenti, gravida, sensuale nella sua trascuratezza (porta vestiti e scarpe da uomo). La figlia di Petrus: pazza, idiota, fuori dal mondo ma forse no. Kunz, direttore tecnico del cantiere, il personaggio più docile, che a un certo punto risulta essere il narratore. Galvez, il traditore di Petrus, ma forse traditore più della comune farsa che di Petrus. Petrus, il giocatore, il simulatore, quello per cui ciò che conta è il gioco con le sue improvvisazioni. La realtà diventa un’ombra nella vita dei personaggi, una minaccia.
Insomma un romanzo davvero interessante e unico per lo stile narrativo, per l’uso della lingua, delle immagini e della scrittura.
"La donna aveva capelli unti pettinati sugli occhi e la smorfia ripetuta del no era ormai una seconda faccia, una maschera mobile e permanente di cui si spogliava soltanto, forse, nel sonno. E tutto quello che l'esperienza di Larsen poteva portare alla luce e ricostruire, con l'aiuto di vecchie intuizioni che avevano dimostrato di essere giuste, non bastava a convincerlo che sotto i goffi segni di tenerezza, rifiuto, modestia e patetico narcisismo, che trapelavano come un bagliore dai tremori della pelle, ci fosse effettivamente la vera faccia della donna, quella che le avevano dato, non fatto e aiutato a fare."
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