Dettagli Recensione
IL ROMANZO DEI DESTINI CHE SI BIFORCANO
“Il tempo si biforca perpetuamente verso innumerevoli futuri” (Jorge Luis Borges, “Il giardino dei sentieri che si biforcano”)
In uno dei suoi racconti più famosi, contenuto nella raccolta “Finzioni”, Borges immagina un libro-labirinto in cui ogni evento può condurre a una molteplicità di conseguenze, e queste a loro volta ramificarsi in altrettanti scenari diversi, e così via fino a ipotizzare un’infinità di futuri alternativi. “In tutte le opere narrative, ogni volta che s’è di fronte a diverse alternative ci si decide per una e si eliminano le altre” mentre in questa fantomatica opera “ci si decide – simultaneamente – per tutte. Si creano, così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano. […] Questa trama di tempi che s’accostano, si biforcano, si tagliano o si ignorano per secoli, comprende tutte le possibilità.” Partendo da una simile, vertiginosa premessa, Paul Auster sceglie di costruire quattro versioni differenti del suo protagonista, raccontandole in parallelo, saltando dall’una all’altra per poi tornare alla prima e così via fino alla fine delle quasi mille pagine del libro, e, muovendosi da un punto di partenza comune a tutte, si diverte a osservare come gli innumerevoli e imprevedibili casi della vita le conducano progressivamente verso destini non solo non coincidenti tra loro, ma anzi profondamente differenti. All’inizio del romanzo, dopo un prologo che serve a presentare i genitori del protagonista, Stanley e Rose, lui proprietario di un avviato negozio di elettrodomestici, lei titolare di un piccolo studio fotografico, ci troviamo nel 1947, anno di nascita del loro unico figlio, Archie Ferguson. Da qui in avanti la storia si dipana seguendo le vicissitudini alternative dei quattro Ferguson, tra fortune impreviste e disgrazie improvvise, amicizie ed amori, film e romanzi, baseball ed università, Parigi e New York. Ovviamente ci sono delle “sliding doors” che costituiscono dei veri e propri punti di svolta della vicenda, come la sorte del negozio che, nella versione più ottimistica, ottiene un notevole successo commerciale, assicurando in tal modo la prosperità economica della famiglia, mentre nella versione più pessimistica, finisce divorato dalle fiamme insieme al capofamiglia, trasformando Ferguson in un orfano. E’ il caso a dominare l’universo di Auster, se si pensa che anche un semplice incontro di baseball può condurre a conseguenze imprevedibili, trascendendo completamente qualsiasi velleità di controllo e di autodeterminazione della propria esistenza. In questo senso “4 3 2 1” mi ricorda un vecchio film polacco di Krzysztof Kieslowski, “Destino cieco”, in cui un banale scontro con un mendicante alla stazione ferroviaria mentre sta cercando di prendere il treno per la capitale conduce il protagonista Wytek, a seconda che riesca o meno a salire sul treno, a tre antitetici futuri alternativi: nel primo Wytek diventa un membro del partito comunista, nel secondo partecipa alla lotta clandestina contro il regime, nel terzo finisce per scegliere un atteggiamento apolitico concentrandosi sulla carriera e sulla famiglia. Si capisce bene che credere o meno all’univocità del proprio destino porta a conseguenze filosofiche, morali e religiose molto differenti. Si pensi alla scelta tra bene e male, tra giusto e sbagliato, su cui spesso si trova a riflettere Ferguson. C’è una illuminante pagina in cui Ferguson immagina di dover recarsi in automobile a un importante appuntamento e di avere a disposizione due strade alternative. Se non ci sono contrattempi di sorta scegliere una strada o l’altra è assolutamente indifferente. “Ma è qui che diventa interessante. Prendi la strada principale, c’è un tamponamento a tre, il traffico è fermo per più di un’ora, e mentre sei nella tua auto pensi solo alla strada secondaria e ti chiedi perché non l’hai presa. Ti maledici per aver fatto la scelta sbagliata, eppure come lo sai se hai sbagliato davvero? Vedi mica la strada secondaria? Sai cosa sta succedendo sulla strada secondaria? Qualcuno ti ha detto che una sequoia enorme è caduta sulla strada secondaria e ha schiacciato un’auto in transito, uccidendo il conducente e paralizzando il traffico per tre ore e mezza? Qualcuno ha guardato l’orologio e ti ha detto che se avessi preso la strada secondaria l’auto rimasta schiacciata sarebbe stata la tua e tu saresti morto? O ancora: non è caduto nessun albero e hai sbagliato a prendere la strada principale. O ancora: hai preso la strada secondaria e l’albero è caduto sul conducente davanti a te, e mentre sei nella tua auto a rimpiangere di non aver preso la strada principale, non sai niente del tamponamento a tre che ti avrebbe comunque fatto perdere l’appuntamento. O ancora: non c’è stato nessun tamponamento a tre e hai sbagliato a prendere la strada secondaria.” La morale della storia, conclude Ferguson, è che non è mai possibile sapere se si è fatta la scelta sbagliata, a meno di non essere in due posti nello stesso momento, cioè a meno di non essere Dio. C.S. Lewis, in un libretto intitolato “Il Cristianesimo così com’è”, paragonava l’essere al di fuori del tempo da parte di Dio (per cui, ad esempio, “se alle dieci e mezzo ci sono un milione di persone che Lo pregano, non occorre che Dio le ascolti tutte in quel granello di tempo che chiamiamo le dieci e mezzo” in quanto “Egli ha a disposizione tutta l’eternità”) all’attività di uno scrittore, il quale non è condizionato dal tempo immaginario del suo romanzo, potendo soffermarsi per ore su una singola frase del racconto oppure contemplare l’inizio e la fine della storia nello stesso momento, così come Dio nella sua eternità può vedere il presente, il passato e il futuro. Questo paragone tra Dio e lo scrittore non mi sembra ozioso, in quanto in “4 3 2 1” (sebbene di Dio non vi sia quasi traccia) Paul Auster, che è un artista che nei suoi romanzi (si pensi solo a “Trilogia di New York”) si addentra sovente in territori meta-letterari, equipara il ruolo dello scrittore a quello del demiurgo. Non è un caso che tra la creazione letteraria e la vita, intesa nel senso borgesiano visto finora, vi sia una sorprendente affinità (“Ogni frase era una lotta, ogni parola di ogni frase avrebbe potuto essere una parola diversa”), nel senso che anche di un libro potrebbero esistere infinite versioni, a seconda del particolare stato d’animo o dell’ora della giornata in cui lo scrittore si mette di fronte alla pagina bianca. E non è un caso anche che tutti i Ferguson abbiano in qualche modo a che fare con la scrittura (dal giornalismo alla poesia, dalla narrativa alla autobiografia), assurgendo in un certo senso ad alter ego di Auster. Anzi, con un sorprendente colpo di scena finale, lo scrittore spariglia le carte e, mescolando la finzione con la realtà, la fantasia con la storia, l’invenzione con la biografia, confonde il creatore con le sue creature e si mette arditamente faccia a faccia con il lettore, senza più alcuna distanza, alcun filtro protettivo.
“4 3 2 1” è un libro che si interroga sul concetto di identità e sul ruolo del caso (o del destino che dir si voglia). Se è vero che ognuno di noi può essere differente a seconda di ciò a cui gli avvenimenti, spesso le coincidenze fortuite, ci mettono di fronte, cosa possiamo dire di noi? Chi realmente siamo? C’è una versione di noi stessi che si possa definire più autentica? Siamo artefici del nostro destino o siamo delle semplici marionette governate dalle circostanze? Se per Pirandello l’uomo è “uno, nessuno, centomila” a seconda di come gli altri lo vedono, per Auster questa frammentazione diventa interna all’individuo, in quanto tutte le vite, quella reale e quelle non vissute, formano un labirinto in cui la ragione inesorabilmente si perde, passando dalla molteplicità del possibile alla unicità della realtà. Il compito dell’autore, di Paul Auster come del Ferguson-scrittore, diventa quindi quello di ricondurre a unità il molteplice, di elaborare il lutto di tutte le vite che non abbiamo vissuto, facendoci accettare l’unica che abbiamo intrapreso e assolvendoci dai sensi di colpa per quello che avremmo potuto essere e non siamo diventati.
Visto in questa ottica “4 3 2 1” è un romanzo caratterizzato da una densità filosofica impressionante. Eppure, anche se finora l’ho voluto presentare soprattutto come un romanzo capace di sviscerare una miriade di possibilità narrative, esso è anche un libro insolitamente essenziale, dotato di una facilità di racconto che potrebbe definirsi addirittura dickensiana, un libro avvincente che, nonostante la sua mole, si legge con incredibile velocità. La scrittura di Paul Auster è estremamente elaborata, ma come spesso capita con i grandi maestri (penso ad esempio a Philip Roth), questa complessità di stile non va mai a discapito della semplicità e della “leggibilità”. Auster sa dare vita a personaggi memorabili, destinati a rimanere a lungo nei ricordi del lettore (personaggi che a volte compaiono in momenti differenti delle vite di Ferguson, in alcuni casi stagliati più vividamente in primo piano, in altri più sfumati sullo sfondo, a riprova del fatto che, nonostante la divaricazione dei futuri del protagonista, vi sono alcune costanti ineliminabili). Si pensi ad Amy, l’amica vivace, passionale, volubile e sensibile ai problemi sociali, “la straordinaria Amy Schneiderman, la ragazza che Ferguson aveva desiderato con tanta disperazione da soffrire ancora al pensiero di quello che avrebbe potuto essere e non era stato”. O alle altre figure femminili che attraversano la vita di Ferguson, lasciando una inconfondibile scia che permette a “4 3 2 1” di essere anche un mirabile saggio sul desiderio amoroso, in un’età (l’adolescenza e la prima giovinezza) in cui certe emozioni (il primo bacio, la prima volta, l’erotismo, la sensualità, la passione, il dolore di un addio, la nostalgia di una lontananza) si scolpiscono indelebilmente nell’animo umano. Come tutti i grandi romanzi americani, “4 3 2 1” è anche uno straordinario affresco storico: le traiettorie dei quattro Ferguson attraversano anni cruciali della storia degli Stati Uniti, dall’assassinio di Kennedy a quello di Martin Luther King, dalla guerra in Corea a quella del Vietnam, dalle lotte per i diritti civili alle contestazioni studentesche, dalle insurrezioni razziali agli scandali politici, fondendo in maniera apprezzabile il privato con il sociale, il singolare con il collettivo, ricordandoci che l’uomo non può mai essere definito al di fuori del contesto storico in cui vive e agisce. “4 3 2 1” è infine un romanzo straordinario, un libro che, come tutti i veri capolavori, apre spiragli di inusitata suggestione, lasciando intuire molto più di quello che appare sulla pagina scritta, un libro che dà le vertigini e si vorrebbe non finisse mai (che bello se ci fossero altri cinque, dieci, cento Ferguson), ma che nel momento in cui finisce sa lasciare di stucco per la sua capacità di esaurire l’inesauribile, di contenere l’incommensurabile.
Indicazioni utili
Commenti
3 risultati - visualizzati 1 - 3 |
Ordina
|
3 risultati - visualizzati 1 - 3 |