Dettagli Recensione
Un'aura di inestirpabile fallimento.
Newark estate 1944. Un’epidemia di poliomielite falcia i bambini della città e si accanisce soprattutto sul quartiere ebraico di Weequahic dove lavora, come animatore di un centro sportivo per ragazzi, il protagonista, Bucky Cantor. Ventitreenne, atletico, nipote devoto (la madre è morta nel darlo alla luce e il padre è un delinquente), scartato dal servizio militare per problemi alla vista.
Il breve romanzo di Roth narra la dolorosa parabola di Mr Cantor, un uomo “giusto” spinto dal costante e nobile proposito di fare la cosa giusta, “mille volta la cosa giusta” e che alla fine si trova a fare un bilancio della sua vita che non solo – come da titolo – è pervasa da “un’aura di inestirpabile fallimento”, ma è anche caratterizzata “da una persistente vergogna.”
Che ha combinato di così terribile, Mr Cantor? Niente, in realtà. Forse è stato vettore del contagio? Forse, ma inconsapevolmente (lui stesso è stato gravemente malato). Forse è stato un inerme strumento nelle mani di dio, un dio che “in base alla sua concezione era un essere onnipotente che riuniva in un'unica entità divina non tre persone, come nel cristianesimo, ma due: uno stronzo depravato e un genio del male.” Comunque un personaggio che non trova – e non vuole trovare – pace. Perché una ragione ci deve essere, un motivo ci deve essere e se la colpa non si può dare a dio, bisogna almeno poterla attribuire a sé stessi. O ad entrambi.
Sensazione di deja vu?
Be’, sicuramente qualcosa del vituperato (da me) Seymour Levov di Pastorale Americana sussiste in Bucky Cantor. Anche la struttura di Nemesi riprende quella di Pastorale, ad esempio nella narrazione affidata ad un personaggio marginale che viene dal passato, e lo Svedese un po’ si palesa in questo suo (imperfetto) fratellino.
Come sono contenta di aver letto questo libro (grazie Ross!)
Mi ha permesso di “fare la pace” con Philip Roth, perché se tanto mi era piaciuta “Pastorale” mi aveva anche costretto a starmene per anni lontana dal suo autore. “Colpa”, appunto dello Svedese e del suo essermi completamente odioso e respingente dalle prime righe. Tanto che avevo creduto che fosse una precisa volontà di Roth aver creato IL personaggio odioso. Invece ho scoperto che non è così, che, anzi, lo Svedese è un personaggio in genere amato.
Non da me.
Il punto che ho preferito di “Pastorale” è quando l’“imperfetto” fratello Jerry lo prende e gli dice tutto quello che avrei voluto dirgli io.
Mr Canton, invece, somiglia allo Svedese, ma riesce a farti intravedere il suo dramma e anche la sua anima. Vuole essere giusto, vuole trovare (e trovarsi) delle responsabilità, vuole le risposte e lo vuole non perché “si fa così”, ma perché “è giusto così”. Mr Cantor ha un bisogno di fare quello che è giusto che sconfina nel delirio di onnipotenza: lui (insieme al dio di cui sopra) responsabili di ogni malvagità e nequizia. È magistrale la scrittura di Roth, perché ti lascia empatizzare e solidarizzare con Mr Cantor. Ti fa approvare le sue “titaniche” decisioni, ti fa commuovere insieme a lui per i suoi lutti, ti fa sentire sulla pelle la sensazione di tragedia imminente e, insieme, di pace e beatitudine (la pesca, l’alba dopo il temporale). Finché Mr Cantor è l’unico personaggio in scena si è tutt’uno con lui.
Ma è quando entra in scena Arnie Mesnikoff che Roth scopre le carte. Arnie il personaggio positivo. Ernie che si è trovato una dimensione e una felicità, nonostante la polio, il dolore, il lutto. Eroe, lui, eroe davvero. Lui che non ha nessun bisogno di sfidare dio perché ne ha compreso l’inesistenza.
E Mr Cantor sbiadisce sul fondo, con suo titanismo, il suo delirio, la sua finta hybris. Grande, grande Roth.
Detto questo… be’.
Possono anche darglielo il Nobel.
Certamente a Stoccolma avranno già preso nota del mio fondamentale consiglio.