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IL DIAVOLO PROBABILMENTE
“Confessione di un assassino” è un romanzo in gran parte debitore della tradizione narrativa dell’Ottocento, e di Dostojevskij in particolare. Alla prima rimandano soprattutto le sue peculiarità stilistiche e narrative, le quali, rapportate all’epoca in cui è stato scritto (gli anni trenta), lo fanno sembrare più vecchio di almeno cinquant’anni, o tutt’al più avvicinabile al Conrad “classico” dei primi anni del secolo: mi riferisco per esempio alle descrizioni minuziose e analitiche di personaggi e ambienti, o alla scelta non casuale di presentare la storia per mezzo di un racconto orale fatto a una pluralità di ascoltatori (come nel “Giro di vite” di James e nella numerosa e coeva letteratura gotica costellata di racconti a lume di candela). A Dostojevskij fa invece pensare la tematica di colpa, espiazione e redenzione che costituisce il perno della tragica vicenda di Golubcik, e più in generale la dialettica tra il bene e il male che permea intimamente il libro.
Il protagonista assoluto del romanzo è il male, o meglio la sua incarnazione fisica per eccellenza, il diavolo. Niente di particolarmente originale, a dire il vero, tanto più che il narratore Golubcik non si fa scrupolo di svelare quasi subito l’aspetto metafisico della sua storia (il libro è zeppo di espressioni del tipo: “il diavolo mi possiede”, “il diavolo guidava ogni mio passo”, ecc.), e soprattutto la vera identità dell’onnipresente Lakatos (“messaggero in carne e ossa del diavolo”), disinnescando in tal modo il possibile effetto sorpresa (quello che ad esempio caratterizzava “L’uomo che fu Giovedì” di Chesterton). Oltretutto l’autore utilizza i luoghi comuni “infernali” più abusati e banali, come la zoppia di Lakatos od il “bagliore rossastro nei suoi brillanti occhi marrone”. Quello che preme più a Roth di sottolineare è però la pervasività del male, la sua irresistibile forza di diffusione basata sul fascino del delitto e della trasgressione (Lakatos è una persona allegra, elegante ed educata, e inebria i suoi interlocutori con “effluvi celestiali”: “Lakatos mi portò dritto all’inferno. Me lo profumò persino”), e soprattutto quella particolare, karamazoviana ebbrezza autodistruttiva, la quale proprio nel momento in cui fa intravedere le conseguenze più nefaste dei propri atti li rende in qualche modo inevitabili e necessari. Golubcik ha fin dall’inizio il sentore di essere avviluppato da qualcosa di diabolico e malefico (i braccioli di una poltrona sono come piante carnivore, la mano nel grembo della zingara è come una mosca nella ragnatela), ma non c’è a mio avviso nelle sue peripezie un autentico senso “tragico” del destino e della fatalità: egli ha sempre in realtà una via d’uscita, una alternativa da percorrere, e se non lo fa e si costringe a bere fino in fondo l’amaro calice della degradazione è solo per una autonoma e consapevole, ancorché masochista, determinazione. L’alter ego del protagonista, quel principe Krapotkin che lo assilla e lo perseguita con l’ossessione del cognome rubato, non è così un William Wilson che vampirizza e annienta il suo doppio, ma è un mero pretesto inopinatamente fatto assurgere a causa di tutti i mali, ed alla fine del romanzo anch’egli finisce per muovere a pietà il lettore non meno della sua vittima-carnefice. Se poi il mefistofelico Lakatos è sempre lì nei momenti cruciali della storia, ciò è in fondo spiegabile non tanto da un’ontologica e ineluttabile supremazia del male, quanto dal fatto, fin troppo riscontrabile nella nostra vita di tutti i giorni, che il demonio è sempre pronto ad offrire i suoi servigi a tutti coloro che lo desiderano e a cogliere ostinatamente ogni occasione propizia per portare un’anima alla dannazione.
Visto in questa ottica, “Confessione di un assassino” è un interessante e nient’affatto banale saggio sulle implicazioni, anche psicanalitiche, della lotta eterna tra il male e la virtù. Questo aspetto lo riscatta in parte da una trama infarcita di troppi cliché melodrammatici (figli illegittimi di principi potenti, spietate spie zariste, innocenti mannequin destinate a diventare esose amanti, proprio come in ogni feuilleton che si rispetti) e da una certa staticità narrativa (la cornice al racconto principale, che si sviluppa tutto in una notte, è quasi inesistente). Tirate debitamente le somme, si tratta di un’opera discreta, seppur minore, di un discreto autore.
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