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UN LIBRO-MONDO DI SMISURATA BELLEZZA
Voglio iniziare questa recensione con un paradosso: nonostante le sue millequattrocento pagine e le sue dimensioni enciclopediche, "Infinite jest" è un romanzo quasi troppo corto. Troppo corto, ovviamente, considerate le sue smisurate e titaniche ambizioni, quelle cioè di proporsi come opera totale, ritratto a 360° di un’epoca, vero e proprio libro-mondo, e come tale pertanto non esauribile, senza limiti, infinito appunto. Le centinaia di personaggi inventati da Wallace e le loro traiettorie esistenziali si intrecciano, si ramificano, moltiplicano i piani temporali del racconto, eppure si vorrebbe, proprio come in una tele-novela senza fine, continuare a seguirli anche al di là dell’orizzonte temporale loro concesso dall’autore, tanta è l’originalità e la forza psicologica che sprigionano, magari nelle poche righe a loro riservate; ma tirare le fila del titanico intreccio è impossibile, e la storia è destinata a rimanere necessariamente aperta, non conclusa. Attraverso questa allucinante “commedia umana”, a "Infinite jest" è concesso soltanto di scandagliare gli oscuri meandri di alcune micro-società (l’accademia di tennis, la casa di recupero dalle tossicodipendenze, l’organizzazione terroristica degli Assassins des Fauteuils Rollents), immaginati come sineddoche dell’intera società americana: da qui deriva l’impressione della sua prodigiosa onnicomprensività, che lo rende un oggetto letterario assai difficile da affrontare in poche parole.
Cominciamo innanzitutto dal coté (pseudo) fantascientifico di "Infinite jest". L’epoca in cui si svolgono gli avvenimenti descritti nel romanzo è spostata solo di pochi anni in avanti rispetto alla data in cui esso è stato scritto: di qui l’effetto angosciante che provoca nel lettore, dal momento che il mondo di Wallace risulta essere una verosimile proiezione dell’oggi (assai più e meglio, ad esempio, del 1984 di Orwell). Wallace non stravolge (come 1984) il mondo come siamo abituati a conoscerlo, però apporta piccole, ingegnose e credibili modifiche alla geopolitica mondiale, così come alle abitudini e agli stili di vita delle persone: l’experialismo e la Grande Concavità, la sponsorizzazione degli anni del calendario, la fine delle major televisive e l’avvento delle cartucce Interlace, non sono “innovazioni” futuristiche gettate lì dall’autore senza spiegazioni, ma sono il logico punto di arrivo di dinamiche storiche, scientifiche e sociali perfettamente credibili, che l’autore si preoccupa di descrivere con precisione e minuziosità, senza peraltro mai cadere in pedanterie didascaliche (vedi ad esempio le vicende politiche che hanno portato alla nascita dell’O.N.A.N., l’Organization od North American Nations, parodiate da un film di Mario Incandenza nel corso della Festa dell’Interdipendenza). L’originalità di Wallace è strabiliante: da una parte lo scrittore americano correda "Infinite jest" di un ricchissimo apparato di note in calce (una sorta di libro nel libro), che cita con piglio enciclopedico e pseudo-scientifico prodotti commerciali, film, personaggi e avvenimenti storici, come se fossero realmente esistiti, aumentando così il tasso di credibilità del romanzo; dall’altra crea una serie impressionate di neologismi ed altre “invenzioni”, da Eschaton (un complicatissimo gioco di ruolo che riproduce un verosimile conflitto nucleare) e ai teleputer (una sorta di proiezione dei nostri computer e televisori) fino all’experialismo (ossia quel processo storico in cui una grande potenza, anziché annettere territori, cede ad altri stati le sue aree ecologicamente più problematiche), al tempo sponsorizzato (il sistema in base al quale lo stato cede a un’industria dietro lauto compenso il diritto di dare il suo nome a un anno del calendario), all’energia anulare, e a tante altre cose ancora.
Wallace è un demiurgo straordinariamente bravo nel costruire la cornice del suo romanzo, ma è altrettanto abile nel dipingere il quadro che quella cornice è destinata a contenere. "Infinite jest" è, come detto, un romanzo dai molteplici personaggi: giocatori di tennis e di football professionistico, tossicodipendenti, travestiti, terroristi, registi cinematografici, alcolisti anonimi, donne bellissime misteriosamente velate, e tanti altri ancora, che occupano un po’ tutte le fasce d’età e i gradini della scala sociale. Eppure, nonostante questa variegata e sterminata umanità, "Infinite jest" parla ossessivamente, compulsivamente, di una cosa sola: la dipendenza. Dipendenza dalla droga, in tutte le sue tipologie e declinazioni (eroina, marijuana, cocaina, droghe sintetiche autentiche o inventate per l’occasione, come il potentissimo DMZ che fa regredire Hal Incandenza ad uno stato sub-umano), dipendenza dall’intrattenimento (dagli schermi permanentemente accesi in tutte le abitazioni fino ad arrivare a quello che dà il titolo al romanzo, un misterioso film la cui visione provoca una letale catatonia nei suoi ignari spettatori e che pertanto diviene l’oggetto di una spasmodica ricerca da parte di terroristi canadesi senza scrupoli), dipendenza dal consumismo (la tragicomica evoluzione della videofonia, gli anni sponsorizzati, ecc.). In fondo a tutto c’è l’orrore, un orrore totale e senza via di scampo, che sembra prefigurare la condizione esistenziale alienata che ha portato Wallace qualche anno dopo al suicidio. Lo scrittore americano dà sempre infatti l’impressione di sapere molto bene quello di cui sta parlando, come se le crisi di astinenza o le depressioni dei suoi personaggi fossero davvero state provate sulla propria pelle. Tutto è troppo terribile e insopportabile, eppure il tono del romanzo, lungi dall’essere tragico, è al contrario percorso da una irresistibile vena umoristica (il modo in cui il teoretico gioco di Eschaton viene condotto verso un apocalittico epilogo per nulla astratto), se non in qualche caso addirittura grottescamente comica (gli incidenti sul lavoro di Doony Glynn), la quale è padroneggiata con somma disinvoltura.
Il vero rischio che correva "Infinite jest" era la dispersione, l’approssimazione: troppi personaggi, troppi andirivieni temporali, troppi punti di vista, troppo di tutto. Eppure, miracolosamente, la costruzione non si incrina, non dà segni di cedimento, ma regge a meraviglia, tenuta insieme da uno stile che spazia da un maniacale enciclopedismo di stampo greenawayano (ad esempio, l’interminabile filmografia di James O. Incandenza riportata nelle note in appendice) a una sfrenata fantasia in grado di creare scene assolutamente fantastiche e surreali (la visita del fantasma di Incandenza senior al capezzale di Don Gately, gli oggetti che all’E.T.A. vengono ritrovati appesi alle pareti o ai soffitti), con in più un’incredibile capacità di coinvolgere emotivamente il lettore. Wallace racconta infatti il vuoto esistenziale della nostra epoca, rispetto al quale la droga, i consumi e lo sport agonistico sembrano rappresentare altrettanti modi per cercare di superarlo e produrre una qualche reazione (sia essa competitiva, ricreativa, o perfino autodistruttiva). Anedonia, amoralità, assenza di sentimenti (il personaggio più “morale” del romanzo è il deforme Mario Incandenza, una sorta di “idiota” con un grande senso di compassione cristiana) e spersonalizzazione dei rapporti umani (ad esempio, Orin parla delle donne che lui seduce quasi compulsivamente chiamandole “soggetti”, i passanti si fanno sempre i fatti propri e dribblano qualsiasi fastidio con maestria “perché ci sono abituati e fanno molta pratica”) creano un mondo agghiacciante, però si respira sempre (a differenza – che so – di un romanzo di Bret Easton Ellis) una straordinaria empatia tra autore e lettore. Hal e Gately, Pemulis e Madame Psychosis, Povero Tony e Marate, e i tanti altri personaggi di "Infinite jest" ce li porteremo dentro di noi a lungo, come gli eroi di una Divina Commedia infima e degradata, eppure terribilmente, irresistibilmente affascinante.
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