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LA SINTESI DI DUE MONDI
Nei primi capitoli del romanzo, Ernesto segue il padre avvocato nei suoi trasferimenti per lavoro sulla Sierra, fino ad Abancay, dove viene finalmente sistemato a studiare in un collegio cattolico. Questo insolito esordio, fatto di viaggi a dorso di mulo, di precarie e provvisorie sistemazioni e soprattutto di una vera e propria full immersion nello stupefacente paesaggio andino, serve ad Arguedas per inquadrare la personalità del protagonista, che è quella di un bambino dotato di una sensibilità davvero fuori del comune, fervida ed esaltata, il quale, di fronte a una realtà che gli si imprime poeticamente come entità viva e vibratile (ad esempio, nel suo brevissimo soggiorno a Cuzco, le grosse pietre di un muro inca “bolliscono”, “parlano” e sono “bestie che si muovono alla luce”, i serpenti scolpiti su un’architrave “camminano”, la macchia di fuliggine di una camera “si agita come uno straccio nero”), si trasforma in un adoratore panico della natura, alla stregua di un sacerdote di una religione pagana in cui l’animismo si fonde con la magia, in cui il canto di una tuya (allodola) è “la materia di cui sono fatto” e uno zumbayllu (trottola) può fare arrivare un messaggio a una persona lontana. Il fatto è che Ernesto, pur essendo un bianco, è stato allevato dagli indios, e degli indios ha assimilato i valori e la cultura. Egli è pertanto la sintesi di due mondi che in Perù sono distanti e inconciliabili, quello della classe sociale dominante di discendenza spagnola e quello dei poveri colonos indigeni, numericamente in maggioranza ma vessati e tenuti in subordinazione dai padroni terrieri, dai soldati e dai preti. Tra i due mondi è evidente che Ernesto si senta più vicino al secondo, tanto è vero che egli è invincibilmente attratto dalle chicherias (le bettole dove la gente quechua si va ad ubriacare la sera o nei giorni di festa) e dai huaynos (i malinconici canti della tradizione), e quando le chicheras si ribellano e assaltano lo spaccio del sale guarda a Doña Felipa e alle sue compagne come a delle eroine epiche che si battono disinteressatamente per i diritti dei poveri. Questa intima dissociazione porta Ernesto a essere un solitario, un diverso (i compagni del collegio lo chiamano il “forestiero”), che solo raramente si lancia in appassionati gesti di altruismo e di abnegazione fraterna (il dono dell’amato zumbayllu all’Añuco), salvo poi assistere, incurante dei rischi del contagio, la scema Marcellina nelle sue ultime ore di vita. All’ambiente in cui vive, e che guarda con un distacco critico e impietoso (la sua mistica purezza lo fa essere arditamente impudente, come quando rompe l’amicizia con Antero o dice al temuto rettore di vedere l’inferno nei suoi occhi), Ernesto preferisce sempre immergersi nella natura, con cui comunica simbioticamente pensieri ed emozioni, ed appena ne ha la possibilità corre a contemplare il selvaggio corso del fiume Pachachaca, che scende non lontano da Abancay. La evidente natura autobiografica del protagonista accentua notevolmente la sua credibilità e la sua verosimiglianza psicologica (anche se di primo acchito le sue reazioni possono apparire isteriche o incoerenti), ma ancor più accresce la verità sociologica del mondo in cui egli si muove, per cui alla fine I fiumi profondi può essere letto, più che come un romanzo di formazione adolescenziale, come un originale saggio antropologico sul Perù, in cui il popolo quechua è rappresentato con una umanità e una vividezza (anche lessicale) che non ci si potrebbe aspettare di trovare nella letteratura peruviana contemporanea, tanto meno in quello che è il suo alfiere più rappresentativo e conosciuto a livello internazionale, Mario Vargas Llosa.
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Ho letto il libro anni fa e m'era parso ad un livello decisamente buono. A distanza forse sarebbe oppotuna una rilettura.