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La vita davanti a sé
 
La vita davanti a sé 2018-01-25 14:01:05 kafka62
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
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5.0
kafka62 Opinione inserita da kafka62    25 Gennaio, 2018
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MOMO', PICCOLO SOGNATORE FILOSOFO

“Non bisogna piangere, figlio mio, è naturale che i vecchi muoiano. Tu hai tutta la vita davanti”. […] Mi sono alzato. Be’, adesso sapevo che avevo tutta la vita davanti ma non me ne sarei fatto certo una malattia.

Quando ho preso in mano per la prima volta “La vita davanti a sé” di Romain Gary mi ha colpito una certa somiglianza con “Il giovane Holden” di Salinger, vuoi per lo stesso modo disinvolto del protagonista di rivolgersi direttamente al lettore, vuoi per un linguaggio molto spontaneo e nient’affatto formale. Le assonanze in realtà finiscono qui, dal momento che Holden Caulfield è uno studente di 16 anni, rampollo di una famiglia benestante di Manhattan, mentre Momò è poco più che un bambino, non frequenta la scuola, è orfano e vive nel quartiere parigino, proletario e multietnico, di Belleville, lo stesso che qualche decennio dopo sarà il teatro delle avventure del signor Malaussene e della sua tribù: insomma due universi completamente differenti e non confrontabili. Confesso inoltre di avere all’inizio pensato che nell’approccio di Gary al personaggio di Momò (cucciolo smarrito e indifeso, senza nessuno al mondo se si eccettua la vecchia ebrea madame Rosa, nel cui pensionato per figli di prostitute vive da sempre) ci fosse un qualcosa di sentimentalmente ricattatorio, dal momento che il lettore è indotto a guardarlo con istintiva e aprioristica simpatia, la stessa simpatia che provano i tanti adulti che nel suo bighellonare lo avvicinano e provano una irresistibile tentazione di accarezzarlo e di mostrarsi gentili con lui. Mi sono però dovuto ben presto ricredere: benché sia innegabilmente un libro ad alto tasso di commozione, “La vita davanti a sé” possiede anche una profondità morale sconvolgente. Non c’è nessuna retorica, nessun buonismo in questo ragazzino costretto a vivere esperienze ed assumersi responsabilità troppo grandi per la sua età, a confrontarsi precocemente con la povertà, la malattia, la solitudine, la vecchiaia, e soprattutto con la prematura constatazione che la vita è fondamentalmente ingiusta. Non c’è neppure autocommiserazione, perché Momò impara presto che la vita è dura e non fa sconti, e che “la felicità bisogna prendersela fintanto che c’è”, senza fare troppo gli schizzinosi, perché dopo tornerà inevitabilmente il dolore. C’è un immenso desiderio di amore e di contatti umani in Momò, e questo bisogno (che è un costante tentativo di riempire un vuoto originale, quello della madre assente, mai conosciuta) lui lo cerca dovunque, senza tregua, al punto di compiere perfino dei furtarelli apposta per farsi scoprire e sgridare (“c’era comunque qualcuno che si interessava a me”) oppure di passare intere ore nella sala d’attesa del premuroso dottor Katz, anche se non è affatto malato.
Madame Rosa è la madre surrogata, la madre adottiva: anche se la loro convivenza sembra apparentemente dettata dal reciproco interesse (quello della donna di ricevere gli assegni della famiglia d’origine che le permettono di sopravvivere e di tirare avanti, quello del bambino di non finire al brefotrofio), gradualmente si instaura tra loro un legame affettivamente molto intenso, che sfocia in qualcosa che ben si può chiamare amore. Quando madame Rosa si ammala e diventa non più autosufficiente, Momò si prodiga ad assisterla e a confortarla con filiale sollecitudine, cercando in tutti i modi di farle vivere i suoi ultimi giorni a casa sua anziché in ospedale. Intorno ai due si scatena una vera e propria gara di solidarietà intergenerazionale e interrazziale da parte degli abitanti del quartiere: chi si incarica di portare a spalle il dottore sofferente di cuore fino al sesto piano in cui vive la vecchia, chi provvede quotidianamente a vestirla e a tenerla pulita, chi addirittura inscena nella sua stanza dei veri e propri spettacoli di strada per cercare di riattizzare una vitalità che va sempre più spegnendosi. In questo modo si stagliano nelle pagine di Gary dei personaggi indimenticabili: ovviamente madame Rosa, ex prostituta ebrea dal cuore d’oro, che tiene sotto il letto un ritratto di Hitler (“e quando si sentiva infelice e non sapeva più a che santo votarsi, tirava fuori il suo ritratto, lo guardava e si sentiva subito meglio, era pur sempre una grossa preoccupazione di meno.”); madame Lola, un travestito senegalese, già pugile in gioventù nel suo paese, che non fa mai mancare soldi (ma anche dolci e champagne) quando madame Rosa e Momò rimangono soli, senza più l’aiuto economico dei bambini lasciati a pensione; il signor Hamil, un vecchio arabo ormai quasi cieco, che dispensa a Momò con la sua ancestrale saggezza le prime, fondamentali lezioni di vita; il temibile protettore nigeriano N’Da Amédée, che gira con le guardie del corpo e che alla famiglia in Africa vuol far credere, con le lettere che madame Rosa scrive per lui a motivo del suo analfabetismo, di essere diventato una persona ricca e importante; e poi ancora il mangiatore di fuoco Waloumba con la sua tribù di colore, il gentile dottor Katz, e tanti altri ancora. Su tutti svetta il piccolo Momò: “La vita davanti a sé” è un suo ininterrotto monologo, pieno di infantile ironia e spontaneità, in cui sogni, desideri e paure affiorano con irresistibile naturalezza, senza affettazioni e senza le censure psicologiche tipiche dell’età adulta. Gary è straordinariamente bravo a calarsi nel modo di pensare di un ragazzo di quattordici anni (che però per gran parte del libro pensa di averne dieci), semplice ma non semplicistico, grezzo ma pieno di buon senso, anche a costo di ricorrere a sgrammaticature (Momò dice spesso “prossineta” per “prosseneta”, “stati d’abitudine” al posto di “stati d’ebetudine”, come normalmente farebbe un bambino di fronte a parole tipiche del mondo dei grandi) o a ripetizioni di cose già raccontate in precedenza. Altrettanto stupefacente è la capacità dello scrittore francese di rappresentare con esattezza e credibilità la psicologia infantile, quel mondo in cui le paure (quelle di rimanere soli o di non essere in grado di affrontare le responsabilità della vita) vengono stemperate dal ricorso alla forza protettrice di sogni ricorrenti (di una leonessa o di un poliziotto, proiezione simbolica dei genitori assenti, dei pagliacci). C’è poi una bellissima scena in cui Momò entra in una sala cinematografica di doppiaggio e qui, vedendo le immagini sullo schermo andare al contrario, immagina come sarebbe se la vita stessa potesse riavvolgersi (ad esempio Madame Rosa ritornare giovane e bella), e così facendo riesce addirittura a immaginare se stesso nelle braccia amorevoli di sua madre.
La vita ha costretto Momò a crescere in fretta (di fronte a lui i due figli della ricca Nadine gli paiono “nuovi di zecca, come se non li avessero mai usati”) e a capire cose che la maggioranza dei suoi coetanei impiegheranno forse decenni a imparare. In una scena estremamente significativa, al dottor Katz, che vorrebbe ricoverare madame Rosa in ospedale, Momò dice che “non c’è niente di più schifoso che infilare a forza la vita nella gola della gente che non si può difendere e che non vuol più essere utile”, in una accorata perorazione in favore dell’eutanasia che ci fa capire come Gary non intenda arretrare neppure di fronte a tematiche dal forte impatto etico e sociale. Il lascito forse più originale di Gary è l’ottica con cui, per mezzo del suo protagonista Momò, guarda i vecchi e li eleva, con la loro bruttezza, la loro decrepitezza, il loro rimbambimento e la loro solitudine al posto che raramente la letteratura contemporanea ha assegnato loro: quello di esseri indifesi ed impauriti per la loro prossimità alla morte e alla non autosufficienza, che la società avrebbe il dovere di aiutare, rispettare, ma soprattutto amare. Il romanzo termina con la non memorabile frase “bisogna voler bene”, parole che però, alla luce di quanto si è letto nelle intense pagine precedenti, sono un po’ come un provvidenziale salvagente che Gary ha voluto lanciare a una umanità sempre più in balia dell’indifferenza e dello sconforto, consapevole che la bellezza e la bontà si possono trovare più facilmente nei bassifondi delle nostre metropoli, piene di immigrati e di reietti, piuttosto che negli eleganti quartieri dove vive l’alta borghesia. In fondo, qualcuno prima di lui non aveva già detto “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”?

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"Chiamalo sonno" di Henry Roth
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27 Gennaio, 2018
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Mi segno anche questo, grazie: sono molto curiosa rispetto all'autore.
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