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SERTAO EPICO E SELVAGGIO
Contiene spoiler
“Vossignoria sa: sertão è dove comanda chi è forte, con le astuzie. Dio stesso, quando verrà, che venga armato!”
Quale straordinario piacere per gli occhi e per la mente è leggere Grande Sertão per la prima volta, senza conoscere del Brasile altro che il Carnevale di Rio o la spiaggia di Copacabana! E’ un po’ come guardare Ombre rosse o Sentieri selvaggi senza mai avere avuto sentore del West o della Death Valley. Si rimane letteralmente incantati di fronte a un paesaggio di selvaggia e primordiale bellezza, raccontato con affetto e nostalgia, certo, ma anche con grande sincerità, senza edulcorazioni o imbellettamenti posticci. Il sertão di Guimarães Rosa è un gigantesco ossimoro, vale a dire è tutto e il contrario di tutto: affascinante e spaventoso, pietoso e crudele, pieno di vita e solitario, pacifico e ribollente di odio. “Il sertão è confusione in una grande eccessiva calma… Tutto qui è perduto, tutto qui è trovato” (pag. 371). E’ in queste terre smisurate (“Il sertão è grande come il mondo”), tra aridi altipiani e oasi fertilissime, montagne scoscese e foreste impenetrabili, fiumi impetuosi e paludi malsane, che si aggira, con la sua banda di jagunços, il protagonista Riobaldo, in un incessante e apparentemente casuale girovagare in cui i combattimenti sono rari intermezzi di una esistenza peregrinante, monotona e disagevole, allietata solo dal cameratismo dei compagni e dall’orgoglio di una scelta di vita estrema e radicale. Il tutto è raccontato in un ininterrotto monologo di quasi cinquecento pagine, che per la sua titanica grandiosità rimanda ad altri capisaldi della letteratura contemporanea, come Il tamburo di latta o I figli della mezzanotte. In questa lunghissima rievocazione, il narratore Riobaldo, ad onta di una memoria sedicente ondivaga e lacunosa, viviseziona il suo passato come un rasoio affilatissimo (“volto al ricordo con uno specchio di lumi raddoppiati”), fino a far emergere le più minute vibrazioni interiori di ogni esperienza vissuta, quasi a voler tirar fuori da essa una qualche misteriosa e imponderabile verità. E’ così che il primo incontro di Riobaldo ragazzo con i jagunços o l’attesa notturna di un combattimento vengono descritti con una vividità impressionante, quasi che nella sua memoria fossero rimasti impressi, come accadeva al borgesiano Funes, ogni singolo minuto, ogni singolo dettaglio, ogni singolo nome e ogni singolo, apparentemente insignificante, accadimento della propria vita. Eppure, nonostante la precisione del racconto, il romanzo è pieno di periodi sconnessi in cui il protagonista si smarrisce di fronte all’impenetrabile mistero della propria anima (si vedano a mo’ di esempio le pagine 256-259): Grande Sertão è infatti paradossalmente, nonostante l’ambientazione esotica e le gesta epiche, un romanzo per così dire psicanalitico, in cui il personaggio che dice io va alla ricerca delle motivazioni dei suoi atti, in una ricerca estenuante dell’origine delle sue scelte etiche. La semplicità, la superstizione e la primitività del protagonista fanno sì che la lotta tra il bene e il male che dilaniano la sua interiorità vengano narrate quasi fossero delle storie dell’Antico Testamento, con Dio e il Diavolo che quasi si materializzano per contendersi la sua anima e un velleitario appuntamento notturno con il demonio (“Credo che non volevo esattamente nulla, di tanto che volevo solo tutto… Rimasi assente. Quello fu un grande buco nel tempo… Ubriaco di me, rovesciato all’incontrario, svuotato dei miei intimi,… stavo lì, di mia volontà, per affrontare uno slancio così smisurato. Da far arrestare i miei occhi in un’immensità di niente”) che segna una fatidica svolta esistenziale per il iagunço Riobaldo, di lì a poco destinato a diventare il capo-banda Urutù Bianco. Grande Sertão, in questo senso, è soprattutto una minuziosa confessione, in cui il narratore, di fronte a un anonimo ascoltatore (che potrebbe anche essere – perché no? - un prete), cerca di rintracciare nel passato ogni possibile ragione di innocenza per allontanare da sé l’allucinante sospetto di avere venduto la propria anima al Maligno e di avere, in un posto dove (nel libro lo si ripete spesso) “vivere è una faccenda molto pericolosa”, contribuito suo malgrado a far trionfare il male sul bene.
Ma Grande Sertão è anche, sorprendentemente, un romanzo d’amore. Anche se il sentimento amoroso parrebbe inconciliabile con l’universo di questi rudi banditi, che cavalcano tutto il giorno e bivaccano sotto le stelle, Guimarães Rosa riesce a introdurre, all’inizio quasi di soppiatto ma poi gradualmente facendone addirittura il fulcro emotivo del romanzo, l’elemento melodrammatico, nella forma del tenero rapporto di affetto tra Riobaldo e Diadorim: rapporto mai consumato, anzi costantemente negato (in quanto contrario al rigido codice virile dei jagunços), sempre in bilico sul sottile confine dell’amicizia tra compagni d’arme, eppure riconoscibilissimo in tutte le sue manifestazioni (basti pensare alle schermaglie di gelosia quando Riobaldo si innamora di Otacilia, la giovane figlia di un fazendeiro), fino al clamoroso epilogo (un vero e proprio coupe de theatre, degno di un feuilleton) in cui Diadorim, ucciso in combattimento, rivela davanti agli occhi sbigottiti di Riobaldo (“il dolore non poté più della sorpresa”) di avere un corpo di donna, per anni dissimulato accuratamente sotto i vestiti e il taglio di capelli maschili. Il rimpianto di non avere mai avuto il coraggio di confidare all’amato il proprio sentimento, di non aver saputo approfittare dei momenti di intimità per aprire il proprio cuore, i piccoli cedimenti (come il sensuale contatto di una mano nella mano) subito rinnegati e puniti con settimane di scontrosità, di silenzi o di lontananza, impregna tutto il romanzo di una tristezza, di una saudade, che contrasta con il corrusco vitalismo delle battaglie, delle cavalcate e della dura ma eccitante vita dei jagunços.
Se anche avesse un impianto letterario tradizionale, Grande Sertão sarebbe un grande romanzo. Ma Guimarães Rosa è anche uno scrittore di genio, capace di marchiare la sua opera con uno stile inconfondibile, allo stesso tempo popolaresco e raffinato, impressionista e barocco, incisivo e prolisso, ricco oltretutto di innumerevoli invenzioni linguistiche, le quali rimandano a un altro gigante della narrativa del Novecento, Carlo Emilio Gadda. I neologismi sciorinati dallo scrittore brasiliano (“sbaraondare”, “chiaracque”, “scaramucciato”, “insemprato”, “diavolarmente”, “sufflagare”, “inzupposo”, “prescioloso”, “pezzettinuccio”, “gambereggiare”, “vespare” per citarne solo alcuni tra i tanti) sono in grado di mandare in sollucchero il lettore più esigente, così come le caratteristiche giustapposizioni di termini usate per intensificare i concetti (“gli avvenuti avvenendo”, “i tuoni tuonando”, “in sì gran numero numerosa”, “buona mira ottima”, “le cose sono molte di troppo”, “fortissimo esatto”, ecc.) e soprattutto il modo originalissimo di descrivere in una parola il comportamento degli animali o di utilizzare il bestiario del sertão per rappresentare un fenomeno umano o naturale (gli uccelli che “gallineggiano”, le zanzare che “infernizzano”, il bestiame che “braveggia”, gli aironi che “aironano” e il merlo che “merleggia”, le pallottole che “colibrarono”, ecc.). L’importanza per l’economia del romanzo di quel macrocosmo particolarissimo che è il sertão la si intuisce quindi già dall’utilizzo del lessico, il quale rivela una profonda e non scontata conoscenza dell’autore dei posti di cui parla, conoscenza (e amore, aggiungerei) che si rivela anche nel loro utilizzo simbolico (le veredas, i buritìs, il manuelzinho del greto) e metaforico (si prenda ad esempio questo brano: “Diadorim – lui andava da una parte, io dall’altra, diversa; così, come, dalle paludi dei Gerais, si stacca una vereda che va a oriente e un’altra che va a ponente, ruscelletti che si separano di colpo, ma correndo, chiaramente, nell’ombra dei loro buritìs” – pagg. 444-445). Trascendendo la geografia dei luoghi, e superando gli esiti pur ragguardevoli raggiunti da altri scrittori sudamericani come Arguedas, Vargas Llosa e perfino Garcia Marquez, Guimarães Rosa ha saputo fare del sertão e della sua esuberante natura l’incontrastato protagonista di un’epopea di ineffabile e rara bellezza.
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Anche a me è piaciuto moltissimo. Una scrittura meravigliosa, capace di destare continue sorprese.
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