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Memoriale del convento
 
Memoriale del convento 2018-01-14 18:28:09 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    14 Gennaio, 2018
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LA STORIA SECONDO SARAMAGO

Sono tanti i romanzieri (Manzoni e Tolstoj, ad esempio, per citare i più significativi) che hanno cercato di raccontare la Storia mettendo fianco a fianco personaggi famosi e personaggi di fantasia, Napoleone Bonaparte e Andrej Bolchonskij, il cardinale Borromeo e Renzo Tramaglino, ma nessuno ha mai portato questo procedimento alle sue conseguenze più estreme e feconde come José Saramago. Quella di Saramago è una vera e propria contro-Storia, in cui gli episodi storici sono riportati in maniera tutto sommato veridica e fedele, ma ad essere messi in discussione sono le loro motivazioni e soprattutto i loro effetti collaterali. Lo scrittore portoghese è un po’ come il correttore di bozze della “Storia dell’assedio di Lisbona” (un romanzo che può essere considerato come l’approdo teoricamente più consapevole e avanzato della sua ideologia), il quale sa benissimo che la Lisbona moresca è stata espugnata dal re del Portogallo, ma ciononostante non resiste alla tentazione di verificare (aggiungendo un semplice “non” nel libro che sta correggendo) come sarebbero andate le cose rovesciando l’ipotesi storica di partenza, quella cioè che i crociati hanno aiutato i portoghesi nell’impresa: cambiati i fattori, interpolato arbitrariamente quel “non”, il prodotto, ovviamente, non può cambiare (Lisbona cadrà comunque nelle mani dei cristiani), eppure, a ben guardare, tutto risulta diverso, perché la diversa prospettiva, il mutato punto di osservazione, ha costretto finalmente a prendere in considerazione aspetti della Storia – sociali, religiosi, psicologici, umani – che normalmente non si è abituati a vedere. E ciò che sembrava frutto, da parte di sovrani, principi e condottieri, di geniali intuizioni strategiche, disinteressata generosità o eroica abnegazione, si trasforma alla fin fine in calcolo meschino, in violenza cieca, in fanatismo retrogrado, mentre solo la gente comune, la soldataglia e le donne del popolo, i contadini e i mendicanti, sono in grado di acquistare una inattesa e inopinata dignità, in forza di una scrittura che, funzionando come una straordinaria lente di ingrandimento, li porta per la prima volta alla ribalta.
Sette anni prima della “Storia dell’assedio di Lisbona”, e con esiti artistici ancora più ragguardevoli, Saramago ha scritto “Memoriale del convento”. Qui gli anni della costruzione del convento di Mafra, del regno di Giovanni V, del soggiorno di Scarlatti a Lisbona fanno magicamente da sfondo alla storia di Baltasar e Blimunda, e, insieme a loro, di una sterminata moltitudine di uomini e donne che non troveremo mai sui libri di storia, ma che proprio per questo - perché dimenticati e sofferenti, perché oltraggiati e vilipesi dalla vita – Saramago ha tanto a cuore, al punto di attardarsi spesso a descriverli, a dire in due parole quello che fanno e da dove vengono, anche quando sono del tutto ininfluenti dal punto di vista narrativo (come il gobbo Pequeno, la cui faccia arriva all’altezza del muso dei buoi che governa, ma che è contento così, perché “quando un uomo entra intero nell’occhio di un bue, si può finalmente riconoscere che il mondo è ben costruito”, o Manuel Milho, che racconta ai compagni di lavoro storie che non riesce a capacitarsi come gli possano essere entrate nella testa, o il vecchio Joao Elvas, che nel viaggio di ritorno al suo paese natio si trova casualmente a scortare il re e il suo imponente seguito insieme a una folla di mendicanti e di straccioni), a volte citando solamente il loro nome, affinché di essi non si perda la memoria.
“E’ ben vero che Dio sceglie i suoi favoriti, pazzi, difettosi, eccessivi”. Come una divinità laica, se mi si perdona l’ossimoro (poiché l’autore può essere a tutti gli effetti considerato, in merito alla propria creazione, un vero e proprio dio), Saramago prova una profonda pietà e una autentica compassione per le vittime della Storia, quelle che nessuno ricorda quando si celebrano le vittorie o si ammirano i monumenti, ma che col loro sudore, con la loro dedizione quasi bestiale all’umile lavoro e al mestiere ingrato, a volte persino con la loro morte, hanno consentito ad altri, ai pochi, agli eletti, di raccogliere gli onori e la gloria, e che, come se ciò non bastasse, hanno sopportato stoicamente persecuzioni, ingiustizie e violenza. C’è un inequivocabile sottofondo moralista nell’opera di Saramago, il quale, dietro l’atteggiamento distaccato, neutro e spesso ironico dello storico, nasconde una vena polemica che non risparmia i potenti da una parte e Dio dall’altra (o, per meglio dire, l’idea che di Dio è stata imposta e affermata nel mondo), quali responsabili degli innumerevoli lutti dell’umanità. Dietro le paludate cerimonie nei palazzi reali e le sfarzose processioni del Corpus Domini, dietro i sermoni ammonitori e i terrificanti auto-da-fè ,si cela infatti la vera realtà che regge il Potere e la Religione, e cioè l’eterna oppressione dell’uomo sull’uomo.
Saramago è un incrollabile umanista e un ateo convinto, ma in aggiunta a ciò egli è anche un fervente fautore del sogno, e di tutto ciò (la musica, l’amore) che solo è in grado di riscattare l’uomo dalla sua infima condizione e dalla durezza della vita. I personaggi di Saramago, anche quando sono immersi fino al collo nel fango dell’esistenza, sono infatti degli inguaribili sognatori. “Che ne sarebbe di noi se non sognassimo?”, afferma Saramago, e, come gli eroi dei romanzi di Baricco che dedicano tutta la loro vita a un ideale (costruire una ferrovia che non va da nessuna parte oppure un palazzo di cristallo, per citare “Castelli di rabbia”) quando sentono nell’intimo che quello è il loro destino, così padre Bartolomeu Lourenço, Baltasar e Blimunda si gettano anima e corpo nell’impresa apparentemente impossibile di fabbricare una macchina per volare. Anche qui sembra che Saramago abbia attinto ad autentiche fonti storiche per creare il personaggio del Volatore, ma lo scrittore portoghese è riuscito a trasfigurare poeticamente la realtà per elevare un inno appassionato ed entusiasta all’inesauribile fantasia e all’incrollabile determinazione dell’uomo (non a caso sono le volontà delle persone, raccolte da Blimunda e racchiuse in una boccetta di vetro, a consentire alla macchina di sollevarsi). Quelli che per un re sono puri e semplici capricci (costruire un convento che possa gareggiare in grandiosità con la basilica di San Pietro), per i personaggi di Saramago diventano obiettivi per i quali mettere in gioco la propria tranquillità e sicurezza, ancorché precarie, traguardi da perseguire a tutti i costi contro l’ottusità di coloro che non credono che l’uomo possa ergersi al di sopra dei propri limiti, spesso fino all’annientamento, al sacrificio e alla morte. Anche l’amore, alla pari del sogno, è un fuoco che divora e consuma, una lotta impari contro il tempo e contro la finitezza dell’esistenza, eppure è l’unica cosa per cui valga la pena di vivere, oltre che l’unica occasione di vera giustizia che c’è al mondo, perché l’amore va al di là della miseria e della malattia, della ricchezza e del censo, tanto è vero che quello di Baltasar e Blimunda (che, non dimentichiamolo, sono due “diversi”, monco lui e dotata di strani e inquietanti poteri lei) è uno degli amori più belli, perfetti e commoventi che mai siano stati raccontati.
Una materia narrativa così ricca di storie e di tematiche, di riflessioni e di sentimenti, non poteva essere narrata se non con uno stile autenticamente personale. E quello di Saramago è uno dei più originali stili di scrittura in cui mi sia mai capitato di imbattermi: una prosa indubbiamente impervia, ostica, con quei lunghissimi periodi in cui sono aboliti punteggiatura, spazi, lineette per i dialoghi, senza neppure il conforto di un a capo, eppure incredibilmente affascinante se solo si riesce ad afferrarne l’intima musicalità e ad essa abbandonarsi, lungo pagine che a volte stridono come cacofonie e altre volte scorrono impetuose, senza soluzione di continuità. E’ davvero un’esperienza unica ed inebriante perdersi dentro a periodi che (come in occasione della processione del Corpus Domini) sono, come per magia, capaci di durare non meno di sei pagine. Non c’è in tutto questo una mera esibizione di virtuosismo tecnico, ma un metodo efficacissimo e funzionale per perseguire precisi obiettivi narrativi: così il tour de force sopracitato riesce a restituire il senso cronometrico della durata della processione, quasi che, in una sorta di piano sequenza letterario, essa fosse seguita dal lettore in tempo reale, mentre una sessantina di pagine prima un esperimento similare dà voce all’idea che tutto nella Storia è interrelato, il grande come il piccolo, e ben si può passare dall’infante don Francisco che spara (come in “Schindler’s list”!) sui marinai delle navi ormeggiate in riva al Tago, ai corsari francesi in Brasile, fino al prete scappato nudo da una casa di piacere e inseguito dalle guardie per le strade di Lisbona. Nella stessa pagina, cioè, c’è la Storia con la esse maiuscola e quella dei poveracci, c’è l’aneddoto e la polemica celata dietro la maschera dell’ironia, il giudizio moralistico di chi antepone la libertà terrena dell’uomo all’onniscienza divina del cielo e il giudizio di chi, non contemporaneo agli eventi come non nasconde di esserlo il narratore (così svelando l’artificio della scrittura), può permettersi divagazioni e commenti anacronistici (anticipando a volte la sorte di qualche personaggio minore oppure accostando il pionieristico volo dell’”uccellaccio” al primo volo dell’uomo sulla Luna). E c’è soprattutto, in questo straordinario romanzo, un grande rispetto per il lettore, il quale è invitato a vedere la Storia (tutta la Storia, non solo quella narrata nelle trecento pagine del “Memoriale del convento”, ma anche quella – perché no? – della costruzione delle Piramidi o della battaglia di Stalingrado) con occhi nuovi, per poter formulare su di essa il proprio autonomo e responsabile giudizio, non inquinato dai luoghi comuni e dalle opinioni consolidate né tantomeno dalle bugie e dalle omissioni dei libri di testo.

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siti
15 Gennaio, 2018
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Appena terminato "Caino" la tua bella recensione giunge a farmi ricredere sull'intento che avevo appena partorito, ovvero di non leggere più niente di suo. Mi rendo conto che non rispettare la cronologia bibliografica nei miei percorsi di lettura possa essere altamente nocivo. Bravo, hai risvegliato il mio interesse. Concordo inoltre sull'umanesimo di fondo di Saramago anche se "Caino" mi sembra lo rinneghi. Lo hai letto? Che ne pensi?
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kafka62
16 Gennaio, 2018
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Grazie per il tuo commento. Purtroppo "Caino", benchè sia da tempo nella mia libreria in quanto ammiratore da lunga data di Saramago, non l'ho ancora aperto. Sono frenato dal fatto che, a partire da "Cecità" (e quindi dal 1995) la qualità dei suoi romanzi sia andata (con la parziale eccezione, forse, de "La caverna") precipitosamente scemando. "Le intermittenze della morte" è stato l'ultimo romanzo di Saramago che ho letto, e siccome la vita è breve e i libri che vale la pena leggere sono tantissimi, non so se ne leggerò altri (la tua ottima e non propriamente entusiastica recensione di "Caino", del resto, confermerebbe questa mia scelta). Buone letture.
In risposta ad un precedente commento
Matelda
15 Aprile, 2019
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Ottima recensione , come sempre . Grazie !Ma sono completamente d'accordo con Kafka62....
3 risultati - visualizzati 1 - 3

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