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Un gelido inverno
Isabelle Allende è forse una delle scrittrici più sensibili e duttili, capace di coniugare il realismo magico di Garcia Marquez a quello storico del golpe militare in Cile del 1973 culminato con la la morte di Salvador Allende (cugino del padre).
Oltre l’inverno, l’ultimo romanzo, ha una genesi anomala. Vive di lunghe descrizioni, un respiro gelato che sa di neve in una Brooklyn flagellata da una tempesta, questo scritto, invogliando il lettore a gustarselo, sotto un’abbondante dose di coperte e con una tazza di cioccolata calda sul comodino.
Sono tre storie, ognuna narrata secondo un personale punto di vista: quello di Richard Bowmaster, professore universitario solitario e riservato, di Lucia Maraz, sua vicina di casa e di Evelyn Ortega, immigrata clandestina dal Guatemala, i cui destini si trovano “aggrovigliati” in un appartamento di un caseggiato alla periferia New York.
Tre persone diverse, tre cittadinanze diverse e tre passati diversi tutti accomunati da qualcosa che conserva le ombre del passato da cui riaffiorano nomi e voci che tutti e tre non avevano più voluto, per scelta, ricordare.
E il pretesto della “rimembranza” arriva quasi subito, dopo trenta pagine: un tamponamento causale -durante il ritorno dal veterinario a cui Richard aveva portato uno dei quattro gatti, finito mezzo avvelenato dopo aver bevuto per sbaglio l’antigelo- da parte di Richard alla macchina di Evelyn, o, almeno, dei “padroni” di Evelyn visto che lei lavora come cameriera in una facoltosa famiglia non propriamente dalle abitudini e dall’amor proprio cristalline (il pater-familias, Frank Leroy è un violento, succube la moglie mentre il figlio è un tredicenne affetto da paralisi cerebrale).
Aggiungiamo un cadavere, quello di Katherine, la badante dell’adolescente, nel bagagliaio della macchina guidata appunto dalla silente cameriera (come c’è finita e chi l’ha messo??) e una storia che mette a nudo i personaggi e abbiamo “lo scheletro” della vicenda.
Una vicenda che la scrittrice dimostra di conoscere bene, inutile nasconderlo e sa narrare con rara grazia e dolcezza con un’abbondante dose di tristezza e dolore (vedi la storia di Evelyn, tra le più “forti”), i rapporti tra i tre protagonisti caratterizzati da sapienti flash-back.
Richard, ebreo scampato miracolosamente grazie al padre allo sterminio nazista, ha avuto nella vita profonde ferite, inutilmente annegate nell’alcol e ora lenite solo dal ferreo autocontrollo con cui gestisce la sua solitudine; la morte dei due figli (indotta dall’uomo) e il suicidio della moglie Anita, l’hanno anestetizzato anche nell’attenzione e nella vitalità che Lucia, vorrebbe donargli.
Dall’altro una giovane Evelyn balbuziente, distrutta dalla morte dei fratelli finiti invischiati in Guatemala in traffici di droga di malavitosi (che non si son fatti scrupolo di violentarla) è lo specchio “giovane” e insicuro di Lucìa, matura cilena dissidente al golpe di Pinochet anch’essa riuscita a scappare alle rappresaglie del governo militare che le ha ucciso il fratello, simpatizzante socialista di Allende.
I tre destini convergono in uno mediante la forma del “thriller” che ne fa da collante insieme al biografismo della scrittrice, nelle colpe del suo Sud America, nella storia di immigrati clandestini, sempre osteggiati da un potere marcio che toglie loro speranza, annichilendo ogni dignità e velleità di scelta.
Nel buio, incapaci di vedere l’arabesco che le tre parche hanno loro riservato, Richard, Lucia ed Evelyn cercano di trovare la loro piccola fiamma per continuare, nonostante soffi e bufere (non solo quella che colpisce senza pietà New York all’inizio) glielo impediscano, a vivere in un presente dove la tensione è alle porte, pronta a esplodere con atti feroci di violenza che sottopongono i nostri eroi a non facili scelte da affrontare. Su tutte però rimane l’amore, l’amore salvifico. Come ci riferisce Allende: basta rotolarsi nelle pene del passato. L’unico rimedio per tutte le disgrazie è l’amore. Non è la forza di gravità a mantenere in equilibrio l’universo ma quella adesiva dell’amore.
Oltre l’inverno bascula con un meccanismo preciso e bilanciato tra due “mondi”, forza e al tempo stesso punto debole della struttura: nonostante la scrittura fluida della Allende (su cui giustamente sapevo di poter contare non essendo il primo romanzo che leggo), la potenza narrativa degli eventi trascorsi rimane in superficie, come fatto di cronaca asettico, senza la dovuta piena sofferenza morale dei protagonisti ben delineati psicologicamente ma sterili nelle loro azioni.
I continui flash-back inoltre, da un lato rallentano l’evoluzione narrativa (alcuni capitoli del golpe sembrano presi da un libro di storia moderna), ma dall’altro, con una ricchezza emotiva, riescono, -cosa non da poco- a comunicare con la dovuta efficacia il difficile ruolo del destino e la scelta, forzata o meno, che questo inevitabilmente provoca nella nostra vita.