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Yvette
La trama non è delle più originali e in certi passaggi la si tira un po' per le lunghe, il che non fa di questo romanzo uno dei migliori di Simenon; non mancano però passaggi degni di nota, soprattutto nelle pagine finali.
Fulcro della narrazione è l'autoanalisi, e il coraggio di essere sinceri con se stessi attenendosi rigorosamente ai fatti.
Lo sa bene il protagonista, avvocato di successo e senza scrupoli che redige una sorta di diario/dossier passando al setaccio la sua passione per Yvette, giovane non bella, corrotta nel corpo e nello spirito, e magnetica, per qualche ragione.
La ragione, all'inizio, ha a che fare con una sorta di sfida: perché non concedersi lo sfizio di rotolarsi un po' nel fango, dopo aver raggiunto l'apice della carriera?
Ma le cose col passare dei mesi mutano e un'ulteriore spiegazione sembrano fornirla queste righe:
“Per me Yvette, come la maggior parte delle ragazze che non significano niente, personifica la femmina, con la sua debolezza, la sua codardia, e anche quell'istinto di aggrapparsi al maschio e fare di sé la sua schiava”.
Lui, che non ha mai amato la moglie, donna forte e volitiva che lo ha aiutato nella scalata sociale, ancor meno parla d'amore per Yvette: semplicemente, senza di lei gli risulta impossibile continuare a vivere.
E' interessante osservare la sua graduale perdita di controllo, lo spettacolo patetico di un uomo che sprofonda inesorabilmente nelle sabbie mobili della dipendenza amorosa concedendo tutto e lasciando sparsi qua e là, con noncuranza, brandelli di dignità.
Tra un ménage à trois e l'altro (la sessualità prorompente di Yvette ha le sue esigenze) qualcuno finisce per lasciarci la pelle, come nella migliore tradizione simenoniana, mentre la frase conclusiva del romanzo con poche ciniche parole sembra chiudere il cerchio.
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