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L’assurdità del pregiudizio
Fra i difetti degli esseri umani vi è anche il pregiudizio, cioè quel voler etichettare negativamente un altro gruppo di individui sulla base esclusiva dell’appartenenza al gruppo stesso. In proposito, ne sanno qualcosa gli ebrei che nei secoli sono stati quasi sempre discriminati e talvolta massacrati per il solo fatto di essere ebrei. Anche Yakov Bok, il protagonista di L’uomo di Kiev, è un ebreo, un uomo tranquillo, un po’ succube, e che, abbandonato dalla moglie, riesce a trovare lavoro come sorvegliante in una fabbrica di un industriale che lui ha salvato da sicura morte. Nel suo nuovo ruolo viene a inserirsi in uno specifico contesto e ambiente, così che provoca invidia, accentuata dal suo stato di ebreo. Ma ciò sarebbe sopportabile, perché da centinaia di anni gli ebrei, pur non essendo diversi dagli altri, sono emarginati, se non accadesse uno di quegli eventi capaci di scuotere e infiammare l’opinione pubblica: vicino alla fabbrica viene ritrovato il cadavere dissanguato di un bambino. Da lì ad associare il delitto a un presunto, e mai dimostrato, sacrificio rituale proprio degli ebrei il passo è breve e quale migliore rappresentante degli ebrei si può trovare se non il sorvegliante Yakov Bok, così invidiato e anche temuto dagli operai? Nella Russia zarista del 1911 il colpevole non può essere che lui, perché è il capro espiatorio ideale, l’essere capace di far emergere le pulsioni più sfrenate e inclementi dell’animo umano. Inizia così una vicenda kafkiana, perché da una parte c’è un magistrato, ammiratore di Spinoza come Bok e perciò improntato al senso della ragione che cerca di contrastare un’accusa impietosa, attirata da un possibile sviluppo di carriera e sostenuta dalla voce stridula del popolo, e dall’altra c’è lui, l’imputato, l’ebreo segnato a dito, colpevole in effetti di aver lasciato il ghetto per immergersi nel mondo dei “gentili”. Ci sarebbe da impazzire, e in effetti poco ci manca, in quella discesa nell’inferno, ma è proprio in questa occasione che Yakov si riscopre ebreo, e trova conforto nella recita dei salmi, ma, soprattutto, nella lettura dei Vangeli, laddove comprende che la sua posizione è come quella del Cristo in croce abbandonato dal suo Dio. Questa consapevolezza di essere l’ultimo degli uomini, senza l’appiglio di una divinità soccorrente, anziché abbatterlo, gli impone la ricerca di nuovo di Dio e questo gli permette di sopravvivere a anni di dura detenzione, di isolamento, di sofferenze fisiche e psichiche, fino a quando, venuta meno quella pressione politica che lo spingeva a confessare un delitto non commesso, viene posto in libertà. Da questa esperienza Yakov Bok uscirà senza danni, oppure no? L’autore volutamente non si pronuncia, lasciando al lettore la decisione; per parte mia credo che quella ricerca di Dio che l’ha salvato, che ha rappresentato un lumicino di speranza, non potrà che essere benefica, perché l’uomo che aveva creduto e auspicato di essere accolto nel mondo degli altri, ha ritrovato se stesso, non in quanto ebreo, ma come essere pensante e dotato di coscienza, il presupposto indispensabile per sentirsi parte non minoritaria del genere umano.
L’uomo di Kiev, premiato fra l’altro con il Pulitzer, è senz’altro un libro da leggere.
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Ho sentito da molti apprezzamenti per questo libro. Con Malamud sono rimasto a "Il commesso", romanzo che pure m' era piaciuto.