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Nebbiosa e vischiosa... noia.
Una scrittura delicata e rarefatta, che non dice, ma suggerisce e allude. Una trama che scorre lieve fra le nebbie reali e quelle che offuscano la memoria dei protagonisti. La narrazione che scivola nel sogno e nel mito, il passato dimenticato che talvolta rivive sfolgorando per un istante e poi svanisce…
Per farla breve.
UNA NOIA PAZZESCA.
Neanche 230 pagine e non ce la facevo più a finirlo. I ragazzi a scuola sbirciavano la mia faccia nell’intervallo e mi dicevano di “non accanirmi” (e alternativamente “Prof, mica ce lo dà da leggere, vero?”).
A pelle(t) mi sentivo che l’autore non fosse nelle mie corde, dopo la sonora barba che mi ero fatta – per colpa del mio compagno – con “Quel che resta del giorno”. Quindi avevo pensato di andare sul sicuro leggendo una “storia arturiana”. Con la materia di Bretagna – credevo – non si può scrivere una storia noiosa – credevo.
Pensavo così di far pace con l’autore e poi provare con “Non Lasciarmi”, in condivisa con il mio gruppo di lettura.
Invece, lasciami proprio, Ishiguro, vade retro!
La notizia è che si può scrivere una storia noiosa sulla materia arturiana.
Ora. È vero che il precedente arturiano era stato Steinbeck e si potrebbe pensare che io si poco obiettiva.
Errore. il contrasto sarebbe stato stridente anche con le riduzioni per bambini del CdP o la Principessa Zaffiro nel regno di Silverland, ai ferri corti col perfido zio.
Comunque abbiamo un’anziana coppia, Beatrice, detta “Principessa” e Axl, che vivono in una piccola comunità e si accorgono, a tratti, ma sempre meglio di tutti gli altri abitanti, che qualcosa sta rubando i loro ricordi. Loro stessi rammentano solo vagamente episodi recenti o fatti molto importanti del loro passato.
Decidono quindi di mettersi in marcia per dirigersi al villaggio dove vive il loro unico figlio (che sta “più o meno” in quella direzione a “più o meno” qualche giorno di cammino, anche se non ci vanno da “più o meno” qualche anno).
Fra eterni dialoghi che vogliono mimare un realismo un tantino insulso, malesseri e acciacchi vari, memorie sfilacciate, incappiamo in qualche vecchia saggia armata di informazioni sibilline, un villaggio in piena rivolta, un ragazzino “segnato”, un cavaliere misterioso, nientepopodimeno che ser Galvano in persona (e qui una confortante certezza: scriva chi vuoi, Galvano è sempre il solito, noioso, intollerabile e pomposo bietolone che ben conosciamo) e il suo cavallo Orazio, una draga cattiva che però forse, arcani barcaioli, visioni, misteriose nebbie ed altrettanto misteriosi fiumi.
Ganzo eh?
Pare difficile farci su una storia noiosa. Sì. Ma il nostro ci riesce. Non c’è un solo singolo istante in cui quello che succede ai personaggi abbia instillato in me il pur minimo scintillio di interesse, durante la lettura. Dettagli su dettagli, descrizioni, dialoghi, monologhi. Niente.
L’unico modo per finire è stato “ricaricare” le informazioni del testo in una forma almeno leggermente narrativa. L’ho fatto per caso per qualche alunno (e collega) che si stupiva per la mia faccia annoiata e chiedeva “ma di che parla?”
Ecco, provare a raccontare e raccontarsi la storia è stato l’unico modo per non desiderare la morte dolorosa dei personaggi (non di tutti, almeno) e superare l’impasse di tedio vischioso in cui la scrittura di Ishiguro mi ha immerso. Che credo che sia davvero una brutta cosa da dire a uno scrittore. E pure premio Nobel. Sorry.
Esame di realtà: son io che non capisco.
Pacifico.
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