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Una vita on the road.
Il romanzo è del 1978 e Henry Chinasky (alias Charles Bukowsky) passa in rassegna i mille mestieri saltuari che lo portano in giro per l’America: non ha un lavoro stabile, si mette in fila con altri emarginati per elemosinare un posto qualsiasi, provando sempre nuove esperienze per lo più negative. Magazziniere, addetto alle spedizioni, attacchino sui treni, spazzino o factotum nelle attività lavorative più varie, dai cibi per cani alle fabbriche di biciclette, non si nega neppure ai lavori più umilianti, cumulando rimproveri, censure, licenziamenti. Perché Chinasky è uno spirito libero, incapace di inquadrarsi in orari rigidi, amante com’è della bottiglia, delle evasioni amorose e, soprattutto, della propria libertà. Chinasky, cioè Bukowsky, non va d’accordo con l’umanità che lo circonda e che lo vessa con regole e coercizioni: lui ama la vita, sfidando disperazione e solitudine, non sopporta la routine che annienta la personalità, affidandosi sempre a quel filo di speranza che lo aiuta a sopravvivere.
E’ una vita on the road, sempre con la valigia pronta ed i suoi quattro stracci, una vita che lo trascina da una stanza in affitto ad un’altra, con compagne occasionali, con le quali dividere solenni sbronze e la fatica di affrontare la dura realtà di ogni giorno. Si direbbe, leggendo le sue vicissitudini, che Chinasky è uno sconfitto nel crudele gioco della vita, ma l’immagine che se ne trae alla fine non sembra quella di un inesorabile perdente: le miserie, la cattiveria, l’ipocrisia, le piccole vendette della gente comune con la quale entra in contatto riabilitano in un certo senso la sua filosofia di vita, facendo di Chinasky una sorta di vittima di un sistema banale e corrotto.
Il comportamento di Chinasky suona come un rifiuto non violento del mondo attorno: e la penna con la quale traduce su carta quello che pensa è quella di un grande convincente scrittore.