Dettagli Recensione
L'incanto dell'amarezza
"Cavalli Selvaggi" entra di diritto tra i libri che mi sono rimasti nel cuore. Dopotutto, viene dalla penna del mio autore preferito. Eppure, questo non è stato sempre garanzia di apprezzamento, perché ci sono stati libri di Cormac McCarthy che non ho apprezzato moltissimo, come "Meridiano di Sangue". Ad essere sincero, ho temuto che "Cavalli Selvaggi" fosse spaventosamente simile all'opera sopracitata. Le prime pagine, infatti, contengono una serie di descrizioni del paesaggio che i cavalieri si trovano ad attraversare, così come in Blood Meridian. Anche se le descrizioni di Cormac McCarthy sono meravigliose, evocative e a volte quasi poetiche, all'inizio tutto sembra statico a parte i due protagonisti. Vi dirò, per più di un quarto del libro si è fatto spazio nella mia mente il pensiero che, forse, l'autore avesse toccato il suo apice con "Suttree" , "La strada" e "Il buio fuori"; che in quelle opere avesse messo tutto quanto di meglio aveva da dire. Mi sbagliavo clamorosamente. A un certo punto la storia prende il suo via, e non ci lascerà un attimo di tregua.
Avendo perso ogni legame con la propria terra e quasi tutti quelli che lo legavano alla propria famiglia, John Grady Cole parte insieme al suo amico Rawlins, diretto oltre il confine che separa l'America dal Messico. Lungo la strada incontrano un ragazzetto, Blevins, armato e in sella a un bellissimo cavallo. Un gran bel tipo, quel Blevins, un mascalzone che li getterà nei guai, ma per il quale non si può che provare una fortissima tenerezza. Forse, insieme al protagonista, è il personaggio più riuscito. Il rapporto che si crea tra i tre cavalieri è anomalo, una sorta di amore-odio che li renderà un trio unico, mai visto prima. Il legame che si crea tra il lettore e i tre protagonisti è fortissimo, come quello che lega il protagonista ai cavalli; ci entreranno nella mente, nel cuore, e verremo travolti da ogni evento insieme a loro. Eventi che li cambieranno per sempre e di quali ci sentiremo quasi partecipi in prima persona, tanto sarà forte il legame che McCarthy è stato in grado di creare tra il lettore e i suoi personaggi.
Rideremo, piangeremo, staremo in ansia. In questo romanzo, merce rara per l'opera di McCarthy, farà la sua comparsa anche l'amore romantico. Ma non fatevi illusioni: Cormac non è un tipo da fiori d'arancio, nè tantomeno è un uomo che ha un buon rapporto col lieto fine. E' un realista ai limiti del pessimismo. Ed è un gran bastardo, ci aggiungerei, ma almeno io non posso fare a meno di amarlo. Come si può non rimanere affascinati dalla sua visione del mondo, delle cose, anche se in certi tratti non la si condivide appieno? La scrittura di McCarthy è amara, tanto, tanto amara, ma contiene sprazzi di verità che appartengono soltanto ai grandi pensatori, a uomini che con le proprie riflessioni e la propria profondità d'animo hanno avuto il coraggio di scavare negli angoli melmosi dell'anima umana. Questa storia mi ha sconvolto il cuore, mi ha suscitato un turbine di emozioni che soltanto i grandi libri riescono a scuotere.
Io non so come sia possibile che quest'uomo non abbia ancora vinto il Nobel. Non lo so davvero.
"[...] si sentì solo come non gli era più capitato da quando era bambino, totalmente estraneo al mondo che pure continuava ad amare. Pensò che la bellezza del mondo nascondeva un segreto, che il cuore del mondo batteva a un prezzo terribile, che la sofferenza e la bellezza del mondo crescevano di pari passo, ma in direzioni opposte, e che forse quella forbice vertiginosa esigeva il sangue di molta gente per la grazia di un semplice fiore."