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Per tutto questo mancano gli occhi
E se l’umanità venisse colpita da una pandemia che ha la forma della Cecità?
E se l’esercizio teorico-letterario di José Saramago si trasformasse in realtà?
E se l’epidemia non fosse soltanto una metafora di questo sciagurato mondo (“Senza futuro il presente non serve, è come se non esistesse”)?
Che cosa sono il progresso e la civiltà se non possiamo vederli (“E per tutto questo mancano gli occhi”)?
La mente corre a un altro esperimento letterario analogo: La peste di Camus. Anche lì si agisce su una prospettiva di morte
per ragionare su ipotesi di morte (“La pallottola che ti sostituirà una cecità con un’altra”), per scuotere chi legge, per immaginare reazioni del potere e della società.
Per tutto il romanzo il climax della preoccupazione procede parallelo al senso di oppressione. Rimango in dubbio se prevalga il primo o il secondo.
Il manifestarsi della malattia (“Sono cieco, sono cieco, ripeteva disperato mentre lo aiutavano a uscire dalla macchina, e le lacrime, sgorgando, resero più brillanti quegli occhi che lui diceva morti”) e la sua descrizione (“È come se stessi in mezzo a una nebbia, è come se fossi caduto in un mare di latte”), il tentativo di diagnosi (“Una pista, sì, lo so, l’agnosia, la cecità psichica, potrebbe essere”), il dilagare del contagio, il desiderio di isolare gli infetti (“E allora vada per il manicomio”), le reazioni violente del potere (“Nervoso, il soldato uscì dalla garrita con il dito sul grilletto…”), il degrado progressivo della società, la furia della forza distruttiva che ridicolizza la vulnerabilità dell’uomo… poi, forse, qualche flebile segnale di speranza (“Il cane delle lacrime”)…
Particolarmente efficace l’analisi della condizione di cecità (“La luce, questa luce, per lui si era trasformata in rumore”), condotta sia in senso fisiologico (“Gli occhi propriamente detti non hanno alcuna espressione, sono due biglie che restano lì inerti, sono le palpebre, le ciglia, e anche le sopracciglia che devono farsi carico delle diverse eloquenze e retoriche visive, la fama però ce l’hanno gli occhi”), sia in senso traslato (“Dentro di noi c’è una cosa che non ha nome, e quella cosa è ciò che siamo”), sia in senso linguistico (“Botte da orbi, si suol dire”).
Giudizio finale: soffocante, potente, intimidatorio. Accecante, ma in grado di regalare visioni.
Bruno Elpis
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Commenti
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Avrei scommesso ben 10 euro che lo avessi gia' letto.
@ C.: ebbene sì, anche noi lettori strong, quanti spazi vuoti abbiamo... temo sia inevitabile, nell'universo della produzione letteraria.
Ciao!
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E' proprio così. Un libro forte, potentissimo, bellissimo.
:-)