Dettagli Recensione
Corpi Naturali
“Il paese delle nevi” è forse l’opera più conosciuta del premio Nobel Yasunari Kawabata. Il romanzo trasporta il lettore in un Giappone remoto, lontano dalla frenesia delle metropoli e dalle bolle di smog, in un piccolo paesino di montagna, spesso asserragliato dalla neve, in cui la vita scorre tranquilla e scandita dai ritmi della natura. È la natura a dominare gran parte delle descrizioni, semplici e raffinate, simili ad haiku stesi in prosa, che fanno da sfondo alla vicenda raccontata. Ma è forse inesatto parlare della natura concepita da Kawabata quale ‘sfondo’: i personaggi stessi sembrano, infatti, cuciti alla perfezione al contesto naturale in cui si trovano ad agire e non sembrano slanciarsi al di fuori di esso; non c’è alcuna differenza fra i colori della natura e quelli dell’animo, che sfilano senza mai scontrarsi, alternandosi e mescolandosi, fino a confondersi. “E la Via Lattea si precipitò dentro di lui con un ruggito" è la frase che suggella l’epilogo del libro. Le figure umane emergono con la stessa semplicità e con le stesse poche pretese dei tronchi d’alberi e delle ondeggianti piume di erba kaya e tutto quello spessore psicologico che si è soliti ritrovare in romanzi europei dello stesso periodo è qui sostituito da superfici impenetrabili, le quali, tuttavia, sono in grado di parlare anche senza fiumi di parole. Volti, gesti, apparizioni, piccole scelte riescono a suggerire innumerevoli sfumature psicologiche: il riservatissimo Kawabata ci risparmia sezionamenti di anime piangenti e lamentose e quasi come se fosse un regista digiuno di pretese intellettuali ci offre soltanto una cruda estetica, uno scivolare di simboli che suggellano l’interiorità umana. Anche Komako, la geisha protagonista del romanzo, non si lascia andare ad alcun tipo di esternazione emotiva (e al massimo quando lo fa, Kawabata rimane sul vago) e la sua stessa pelle, sempre gelida al tocco, è metafora di questa chiusura ermetica. Le emozioni si afferrano soltanto vibranti negli spasmi del suo corpo, nei semplici gesti di dedizione e cura che ella ha per Shimamura, l’uomo di cui si innamora, nel riserbo delle poche frasi che pronuncia. Eppure Komako non è come gli altri personaggi che, come detto, panicamente partecipano alla grande necessità naturale, e in un certo senso prova a ribellarsi a tutto questo. In un mondo dove la professione, i ruoli sociali sono come radicati nella natura, dove non esiste differenza fra natura e cultura, Komako, che dovrebbe unicamente occuparsi del ristoro e del divertimento dei suoi clienti, alle terme del paese, si innamora di uno di essi e cerca di impadronirsi di ogni goccia di tempo che egli trascorre al paese, pur essendo consapevole, sempre in base alla grande necessità naturale che governa il mondo, che egli presto tonerà a Tokyo, dalla sua famiglia. In un mondo dove essere individualisti significa essere in salute, Komako assiste il figlio della donna che l’ha ospitata (Shimamura non sapendo spiegare tale fenomeno, sospetta una relazione affettiva fra Komako e l’uomo). Komako è strana. Persino una cosa banale come scrivere un diario è tacciata da Shimamura, alto rappresentante della necessità naturale, come una cosa inutile, uno “spreco di energie”. Komako non è sintonizzata con il tutto, non danza ascoltando il grande mantra che spira fra le foglie degli aceri, che è sopito sotto la neve, che manovra gli uomini come un abile burattinaio. Non è come la giovane Yoko, il cui volto, riflesso sul finestrino del treno preso da Shimamura, è arborescente, mescolato al paesaggio. Komako è innamorata ed è questo che costituisce la grande trasgressione. E l’amore, come scriveva Philip Roth ne “L’animale morente”, non è completarsi, ma è spezzarsi. Ed è lo stesso Shimamura ad accorgersi del potenziale snaturante dell’amore, o meglio dell’essere umani, dell’essere creature fragili e inadatte alla sopravvivenza:
“- la gente è delicata, vero? – aveva detto Komako quella mattina. – Ridotta in poltiglia, si dice, cranio, ossa e tutto. Un orso potrebbe cadere dalla roccia più alta e non ferirsi minimamente -. C’era stato un altro incidente su fra le rocce, e ella aveva indicato la montagna sulla quale era accaduto. Se l’uomo avesse una pelle ruvida e pelosa come l’orso, senz’altro la sua vita sarebbe diversa, pensò Shimamura. Era attraverso una pelle sottile e liscia che l’uomo amava. Guardando le montagne nella luce della sera Shimamura sentì un ardente, struggente desiderio della pelle umana”.
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Un libro letto e riletto. Personalmentene ne ho molto apprezzato anche lo stile.