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C’era una volta il West
John Williams ha la straordinaria capacità di stupire il lettore, con una prosa, tanto dissimile nel suo sviluppo, quanto uguale nei suoi intenti; in ogni suo romanzo parla dell’essere umano, nella sua naturale incompletezza e nel senso che cerca di dare alla sua esistenza. Che sia l’anonimo insegnante Stoner, o l’uomo più potente del mondo, l’imperatore Augusto, in ogni caso ci troviamo di fronte a esseri che vengono dall’oscurità per brillare nella migliore delle ipotesi per qualche istante e che infine ritornano nell’oscurità. Tutto è fatuo, nulla è durevole, la caducità ci è propria e possiamo solo vivere di sogni che il più delle volte finiscono con il trasformarsi in incubi, come accade a Schneider, a Miller, a Hoge, a McDonald, quattro dei personaggi di Butcher’s Crossing, spalle del protagonista Will Andrews, un giovane di buona famiglia, che lascia l’università e che si spinge all’ovest alla ricerca del suo destino. Approderà a Butcher’s Crossing, questo misero villaggio polveroso, e parteciperà al sogno collettivo di abbattere una mandria gigantesca di bisonti. Partono in quattro (Schneider, Miller, Hoge e Andrews) e tornano in tre, dopo che il loro sogno si è trasformato in incubo per ritrovarsi di nuovo in quella fogna di paese, sconfitti tutti, anche McDonald, tranne Andrews che considera l’esperienza una tappa del suo continuo pellegrinaggio. Il mercato delle pelli di bisonte è crollato, la ferrovia che doveva passare per il villaggio transiterà a una cinquantina di chilometri dallo stesso, tutto appare finito e superato, in una luce crepuscolare che incornicia gli ultimi giorni di un’epoca e di un’epopea. C’era una volta il West, terre libere, selvagge, battute dal vento e dal sole, calpestate da mandrie di bisonti e dagli stivali di uomini pronti a giocarsi tutto per alimentare un sogno, c’era, ma tutto sta cambiando e così anche quel mondo, che più non ritornerà.
Romanzo caratterizzato da una vena malinconica e pessimista, Butcher’s Crossing si chiude in modo enigmatico, con il giovane Andrews che riprende il suo cammino, senza sapere dove andrà, anche se in cuor suo sa che sta procedendo alla ricerca di se stesso. Opera dai ritmi lenti, anche dove forse dovrebbero essere accelerati, come nel caso della carica dei bisonti, si fa apprezzare anche per la grande abilità con cui l’autore è riuscito a ricreare l’ambiente e l’atmosfera, al punto che le pagine poco a poco si fanno immagini in movimento, tanto che si ha netta la sensazione di essere presenti nella valle solitaria dei bisonti, sotto la neve che cade impietosa, fra quegli uomini che invano cercano di dare un senso alla loro vita, alle spalle di Miller che implacabile con il suo fucile stende i grossi mammiferi, in preda a un’ansia corrosiva che lo fa somigliare al capitano Achab di Moby Dick. Ma forse è inutile cercare di dare un senso alla nostra vita, perché tutto è già stato scritto nel libro del destino, anche che quegli uomini sono le ombre ormai di un mondo che scompare.
Imperdibile.
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Chiara
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Elena