Dettagli Recensione
il delitto dell'uomo qualunque
Da dove cominciare per scrivere di uno dei romanzi più citati – non importa se a sproposito – della letteratura mondiale? Forse dal fatto che è il libro dello scrittore russo che ho finora amato di meno senza riuscire a capirne davvero il motivo, ma con il vago sospetto che sia la risultante di una somma di cause. L’azione si svolge negli ambienti sovente sordidi di una Pietroburgo soffocata dall’afa; i personaggi faticano a stimolare empatia, anche perché, abbastanza insolito in Dostoevskij, spesso non mostrano approfondite sfaccettature (il buon Razumichin, l’astuto giudice istruttore Porfirij, il volgare Lužin); la stratificazione degli argomenti di riflessione – quello dato dal titolo, le dinamiche tra consanguinei indagate nella famiglia del protagonista, gli spunti legati all’ateismo e quelli di critica sociale, con il rifiuto del socialismo e la disapprovazione per il nascente (per la Russia) capitalismo – inficia a tratti la scorrevolezza della narrazione. E poi c’è lui, Raskolnikov che invece di sfaccettature ne mostra fin troppe in un alternarsi di momenti di esaltazione e altri fortemente depressivi che finiscono per far entrare il lettore nella sua mente, il che non è certo un’esperienza piacevole. La sua parabola ricorda molto quella dell’uomo comune e forse per questo colpisce così tanto: giovane e dai grandi progetti incendiari, il protagonista deve ben presto fare i conti con la realta e le sue più prosaiche caratteristiche, dimostrandosi non all’altezza della sua ambiziosissima immaginazione. A partire dal delitto che commette: nato da una complessa teorizzazione sulla sua minor gravità visto che libera la società dal peso di un’usuraia, si rivela un banale omicidio per soldi in cui, per intervento dell’imponderabile, finisce in mezzo un’innocente. Favorito dalle circostanze, ma incapace di sopportare la drammaticità dell’accaduto, Raskolnikov dissemina indizi e affermazioni in un crescendo paranoico che pare avere l’unico scopo di farlo scoprire – come molti dei moderni assassini senza volto – tanto che il paziente Porfirij può lasciare che sia il tempo a portarlo all’autoaccusa. La sofferenza fisica che tormenta il protagonista – tra febbri e lunghe giornate immobile sul divano della sua miserabile camera in affitto - non è altro che la manifestazione del suo malessere morale, acuito dall’impossibilità di ricambiare l’affetto disinteressato di madre e sorella, nonché dall’amore inatteso di Sofja, figlia dell’ubriacone Marmeladov la cui famiglia viene beneficiata nell’inconscio tentativo di compensare il male fatto. In fondo, il vero castigo per Raskolnikov è il tormento a cui viene sottoposto dalla sua coscienza angosciata sia dal sangue versato, sia dall’incapacità di sostenere la situazione (altro che Napoleone…), tanto che una certa serenità pare farsi largo solo dopo l’arresto e il trasferimento in Siberia. Nella sua affannosa lotta con se stesso in cui solo a sprazzi le figure che lo circondano riescono a farsi spazio, il protagonista è in continuazione al centro della scena spargendo attorno a se l’inquietudine che lo percorre e che il fine indagatore di spiriti Dostoevskij restituisce con poderosa accuratezza: una problematicità che si riflette nell’esperienza di lettura, facendo di Raskolnikov un antieroe indimenticabile al quale però è scomodo sentirsi vicini.