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Hans Schnier
Come carta di identità ha scelto una mattonella di carbone con su stampato, sottolineato con gesso rosso, Schnier, il nome della sua famiglia.
Famiglia di industriali del carbone, spilorci ma pur sempre milionari, con una figlia morta adolescente per servire il Terzo Reich, un figlio convertito al cattolicesimo per farsi prete e un altro clown professionista in declino, “colpevole della più grave colpa per un clown: suscitare pietà”.
Con la biacca un po' incrostata che gli ricopre il viso, gli occhi azzurri “come un cielo di pietra” e i capelli scuri che per contrasto sembrano una parrucca, Hans Schnier mostra al mondo la sua faccia più vera, quella di un uomo senza un soldo in tasca e col cuore spezzato.
Paga il prezzo della sua coerenza in una società di marionette che “si toccano mille volte il colletto ma non riescono mai a scoprire il filo che le fa muovere”, paga il suo amore per Maria, che lo ha abbandonato per sposare un cattolico e condurre una vita “perbene”.
Monogamo e miscredente, canta le litanie lauretane con l'entusiasmo di chi cattolico non è, e soffre la perdita e il tradimento della sua unica donna.
Quello che osserviamo attraverso i suoi occhi è un mondo che si sgretola senza più certezze e a cui lui rifiuta disgustato di adattarsi, mentre scorrono i flashback di una storia d'amore pura e profana, e poi attimi di vita che un clown non può e non deve dimenticare.
La narrazione, a tratti, sembra lo sfogo un po' monotono e deprimente di un uomo caduto in disgrazia, ma tra sarcasmo, dolore, smanie autodistruttive e speranze disperate ha il pregio della schiettezza. E se le argomentazioni di un clown ci appaiono alla fine più oneste e affidabili di quelle della variegata umanità che lo circonda una ragione ci sarà.
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