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“So quello che c’è nel mio Corano”
Sarebbe bello se ognuno potesse conoscere ciò che c’è nel suo Corano. Anche se non si è musulmani né arabi. Perché il Corano di cui parla monsieur Ibrahim in questo racconto non è propriamente il libro sacro dell’Islam, ma - credo - il cuore, il profondo dell’anima che racchiude quel che siamo e sentiamo.
L’ho atteso a lungo, questo libro, sognato, desiderato. Ed è stato infine all’altezza delle aspettative; anzi, queste sono state addirittura superate. Mi aspettavo, in verità, una storia di amicizia tra i due protagonisti, l’anziano monsieur Ibrahim e il giovanissimo Mosè, ma al di là di essa, c’è molto di più tra queste splendide pagine: il rispetto e l’accettazione dell’altro, del diverso e della cultura che egli porta, la conoscenza di sé, che non può prescindere appunto dalla conoscenza dell’altro, la tolleranza verso l’affascinante mondo delle religioni - nessuna esclusa! - che non è fatto soltanto di dogmi indiscussi e prevaricazioni intolleranti, ma pure di spiritualità autentica che abbraccia valori universalmente condivisi; tra tutto questo, non manca nemmeno la speranza, ché, se non persistesse dai tempi di Pandora, saremmo davvero perduti, senza più orizzonti di futuro.
E così il ragazzino ebreo Mosè diventa Momo, diminutivo del nome arabo Mohammed, anzitutto per se stesso e poi per gli altri; impara all’improvviso a sorridere, lui che non sorrideva mai, e a guardare alla vita con occhi nuovi, senza per forza sentirsi diverso, ma scoprendo che “diverso avrebbe potuto essere il mondo”; da figlio di un ebreo privo di identità e punti di riferimento diventa figlio di un “arabo” che in realtà arabo non è, intendendo per arabo, in quell’intreccio di strade parigine, “bottega aperta la notte e la domenica”. E, soprattutto, monsieur Ibrahim, che sorride sempre e pare legga nel pensiero, è un musulmano, ma non un semplice musulmano, sunnita o sciita, forzatamente astemio e dalle cinque preghiere quotidiane: è un sufi, un mistico dell’Islam, uno che fa i conti prima di tutto con la propria interiorità.
Con i suoi lati leggeri e drammatici insieme, è una storia semplice che si legge d’un fiato e che sprizza saggezza, entusiasmo, voglia di vivere. Neppure la morte, che sopraggiunge inattesa (o forse no) nel finale, ormai al termine del viaggio alla volta della Mezzaluna d’Oro, favolosa terra natia del vecchio bottegaio, atterrisce o sconforta poiché essa è solo il modo per ricongiungersi con l’immenso di cui siamo parte.
Già, sarebbe bello conoscere, proprio come monsiuer Ibrahim, quello che c’è nel nostro Corano. Così come sarebbe bellissimo abbandonarsi alla danza dei dervisci che girano su se stessi con le loro lunghe gonne roteanti; lasciarsi trasportare dal ritmo dei tamburi d’un Vicino Oriente magico e girare, girare intorno al nostro cuore che, a poco a poco, si alleggerisce di tutti i sentimenti negativi e della vita stessa, che spesso ci maltratta, e si unisce in preghiera con i fremiti dell’universo.
È l’immagine più bella di tutto il libro, secondo me, quella della danza sufi nel monastero, profondamente emozionante!
https://www.youtube.com/watch?time_continue=10&v=WllqukhAPZY