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Così è la vita
Holt in Colorado, una cittadina rurale che probabilmente non esiste, ma che è in tutto e per tutto simile ad altre piccole realtà degli Stati Uniti; in questo luogo, lontano dai richiami delle grandi città, come Denver, che nel romanzo ogni tanto appare, si consuma l’esistenza dei suoi abitanti, senza scossoni, senza velleità, ma anche senza particolari patemi, assenti per una sorta di innata rassegnazione. Lì si nasce, si cresce, si fa sesso, si invecchia e si muore, nè più né meno come in ogni altro posto del nostro pianeta e in sé le storie dei suoi abitanti non avrebbero nulla di particolare o di interessante se a raccontarle non fosse un artista di grandissimo talento che risponde al nome di Kent Haruf. Giunto al successo piuttosto tardi questo narratore che taluni tendono a paragonare per la sua scrittura asciutta a Hemingway, ma che io credo possa essere meglio comparato per lo stile sì senza fronzoli, ma incalzante, a Faulkner, ha stilato un trittico di opere a cui è stato dato il titolo di Canto della pianura. Certo lì montagne non ce ne sono e forse canto può apparire un po’ pretenzioso, ma se guardiamo la straordinaria umanità con cui Haruf ha disegnato i suoi personaggi, esseri umani normalissimi, ognuno con un suo segreto, devo riconoscere che è riuscito a confezionare un romanzo capace di toccare le corde più sensibili di ognuno di noi, senza enfasi, senza stimoli assidui, ma semplicemente narrando di protagonisti che non sono né eroi, né martiri, sono semplicemente vite che appaiono in strade polverose e scompaiono nelle stesse. A fronte di un soggetto principale, Dad Lewis, non più giovane, anzi anziano, che si appresta al commiato definitivo dalla sua famiglia, perché il male di cui soffre è incurabile, compaiono altri personaggi, nessuno inferiore e nessuno superiore agli altri: la moglie, che non si rassegna alla futura perdita, la figlia, che per l’occasione è tornata alla casa dei genitori e che porta con sé il dolore per la scomparsa della sua bambina investita da un’automobile, le vicine di casa, di cui le dirimpettaie sono una nonna vedova con una nipotina orfana, un’anziana madre, pure vedova, e sua figlia, ormai incamminata verso un sicuro zitellaggio dopo una combattuta storia d’amore con un uomo sposato, il pastore Lyle, esiliato in una parrocchia minore perché, fervido credente, cerca di praticare alla lettera, e invita a farlo anche gli altri, quanto c’è scritto nel Vangelo, attirandosi le ire di non pochi fedeli e, soprattutto, della moglie e del figlio, che lo considerano un buono a niente. Le loro storie si sviluppano, si dilatano, finiscono per venire a contatto e, senza essere travolgenti, riescono ad avvincere al punto che l’immaginazione sembra quasi materializzarsi. Alla fine il povero Dad lascia questo mondo, come era logico, ma non c’è niente di drammaticamente commovente, perché Haruf sembra dire che la vita è così: si nasce, si cresce, si muore, perché non siamo che di passaggio. Dopo verranno altre genti, altre stagioni, in un ciclo senza mai fine.
E’ un romanzo senz’altro stupendo e che lascia alla fine il lettore in uno stato di appagante serenità.
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Interessante e invitante recensione. Di questi tempi abbiamo proprio bisogno di libri, ovviamente non faciloni, che ci lascino "in uno stato di appagante serenità" Ho sperimentato qualcosa di simile con "Gilead" di Marilynne Robinson .
Intanto , recentemente, ho comprato, come scorta di letture per l'estate, "Canto della pianura" dello stesso Haruf : vado fiducioso.