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Un crescendo
Devo ammettere di aver iniziato la lettura di questo romanzo con l’idea sbagliata: pensavo si sarebbe rivelato più o meno affine allo stile di John Green, che in genere fa leva su temi ad alto impatto emotivo per catturare i lettori; in questo volume invece il contesto sociale e storico ha molta meno rilevanza di quanto promesso nella sintesi introduttiva, dove forse si è calcata la mano per ragioni di marketing.
In ogni caso, nella prima metà del romanzo mi sono davvero sentita combattuta, perché da un lato avevo letto delle recensioni a dir poco entusiaste, ma dall’altro trovavo lo sviluppo della trama parecchio confuso e le situazioni in cui si trovava ad essere il protagonista inverosimili. Soltanto nei capitoli finali si ottiene una spiegazione chiarificatrice, benché personalmente ritengo alcuni comportamenti ed azioni al limite dell’irrealtà, come ad esempio il fatto che la maggior parte dei Black di New York siano disposti ad assecondare un bambino (e sua madre): è mai possibile che non abbia incontrato nessuna persona violenta, o perlomeno non disponibile?
Voglio elencare subito anche gli altri elementi a mio giudizio negativi, per poi passare a quelli che mi sono piaciuti. E tanto.
Penso che Foer abbia un po’ esagerato nell’uso delle metafore, infatti se le sommiamo ai tanti comportamenti bizzarri di buona parte dei personaggi, si arriva al punto di non poter capire cosa accade veramente e cosa no; questo tipo di “confusione” può essere piacevole a piccole dosi, ma qui mi è sembrata eccessiva e poco naturale, come se l’autore studiasse le sue scelte a tavolino.
Non mi è piaciuta neppure la risoluzione del mistero della chiave: l’ho trovata troppo semplice, e non capisco come si possa optare per una scappatoia del genere dopo aver curato tanto i dettagli nei capitoli precedenti. Questa scelta dell’autore è stata senza dubbio molto deludente.
Il disappunto più grande è stato però causato dalla superficialità con cui Foer parla dell’autolesionismo in un bambino delle elementari! E anche questo è un elemento irreale, perché se può essere verosimile lasciare il proprio figlio libero di esplorare la città, non lo è di certo ignorare i lividi che si procura in svariate occasioni.
Questi in linea di massima sono i motivi per cui non urlo al miracolo assieme agli altri fan di Foer. Riconosco comunque la maestria con cui si è creato un proprio stile distintivo, che dimostra di padroneggiare soprattutto quando fa ricorso più volte alle stesse parole e alle stesse frasi, per creare un’atmosfera particolare o per dare l’illusione che siano parte del lessico comune. Molto interessante anche quando accosta vari punti di vista dello stesso evento per colmare con le informazioni di uno i buchi narrativi dell’altro.
Geniale la scelta di impaginare in modo diverso le lettere dei nonni di Oskar: se da un lato abbiamo Thomas Senior che scrive tutto il testo attaccato, abituato a non sprecare neanche un centimetro di carta nei suoi quaderni, dall’altro la nonna lascia degli spazi tra le parole e le frasi, trasposizione delle lunghe pause nel suo parlato.
Infine, il maggior pregio dei questo romanzo si riscontra nella magistrale cura della parte grafica, con le fotografe che accompagnano piacevolmente la lettura e permettono di sentirsi un po’ più vicini ad Oskar.
Sul “fronte delle lacrime”, spero di non essere considerata un mostro, ma mi sono commossa soltanto al racconto di William Black e, soprattutto, leggendo l’intervista alla donna di Hiroshima.
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