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Luce d'agosto
 
Luce d'agosto 2017-05-13 22:33:25 bluenote76
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bluenote76 Opinione inserita da bluenote76    14 Mag, 2017
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Sotto il Sole del Mississippi

Hai mai notato come la luce in agosto sia diversa da ogni altro periodo dell’anno?». Si racconta che sia grazie a questa casuale affermazione, fatta dalla moglie dell’autore durante una calda serata estiva, che William Faulkner decise di cambiare il titolo del suo settimo romanzo dall’originario Dark House (Casa Buia in italiano) a Luce d’agosto. In seguito critici e giornalisti formularono diverse supposizioni sul significato recondito del titolo e di come questo si potesse collegare agli eventi narrati nel volume. Tuttavia quando Faulkner verrà interrogato a riguardo, risponderà semplicemente che Light in August si riferisce alla particolare qualità della luce che illumina la sua terra (lo stato del Mississippi) nel mese di agosto «fulgida, nitida, come se venisse non dall’oggi ma dall’età classica». Titolo particolare per un libro, pubblicato in Italia da Adelphi a cura di Mario Materassi, con così poca luce e tante ombre. Faulkner scatta un’istantanea degli anni Trenta nel cosiddetto “Profondo Sud” degli Stati Uniti: gli stati sudisti, la parte del Paese più dipendente dalle piantagioni e dalla tratta degli schiavi, usciti pesantemente segnati dalla Guerra Civile. Il romanzo è ambientato per la maggior parte a Jefferson, immaginaria città dell’ancora più immaginaria contea di Yoknapatawpha, trasposizione letteraria della contea di Oxford, Mississippi, terra natale dell’autore. La povertà, si sa, è terreno fertile per la violenza. La segregazione razziale, il proibizionismo e la fede portata ai limiti del bigottismo completano il quadro di una realtà arida e in apparenza statica che traspare dai volti di pietra e dalle parole asciutte dei personaggi che si susseguono nel racconto. Tuttavia si tratta di un’immobilità solo apparente che cova la violenza come il fuoco sotto le ceneri, a cui basta un soffio di vento per divampare. La miccia di questo fuoco è un uomo taciturno, dal viso impassibile e un po’ malevolo che risponde al curioso nome di Joe Christmas. L’uomo, abbandonato in un orfanotrofio in tenera età, non sa nulla dei suoi genitori e approda a Jefferson in cerca di lavoro. La sua carnagione è troppo chiara per essere un uomo di colore ma Joe è tormentato dalla segreta convinzione di essere un meticcio, pur non avendo alcuna prova certa. L’America di allora non era certo il “melting pot” di oggi: la segregazione razziale aveva preso il posto della schiavitù, le unioni miste erano proibite ed essere mulatti significava essere in bilico tra due mondi, senza appartenere a nessuno dei due. Joe Christmas è forse uno dei personaggi più affascinanti creati dall’immaginario di Faulkner e principalmente perché è poco prevedibile. Nell’arco della sua vita, da capro espiatorio diventa carnefice e lo scrittore si astiene dal giudicare se alla fine sia una vittima o un colpevole.

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