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Miriam o Malika?
Questo è uno di quei libri che ti tocca nel profondo; uno di quei libri che ti cattura e ti trasporta nel suo mondo, che non riesci a smettere di leggere nemmeno a notte fonda e poi ti impedisce di dormire, perché racconta una delle pagine più tremende della storia dell'umanità: la Shoà.
La scrittrice svedese Majgull Axelsson si è cimentata in una prova che pochissimi altri scrittori hanno tentato finora: scrivere un'opera di finzione letteraria che racconta la vita nei lager nazisti. Per farlo la Axelsson si è documentata rigorosamente e ha consultato fonti storiche di diverso tipo, fino a costruire una storia profondamente emozionante, verosimile e di grande spessore emotivo.
Un'anziana svedese, nel giorno del suo compleanno, di fronte alla sua famiglia, pronuncia una strana frase: “Io non mi chiamo Miriam.” Dopo settant'anni in cui ha nascosto il proprio segreto, Miriam adesso ha bisogno finalmente di aprirsi e rivelare la verità. Sceglie di farlo con la nipote, Camilla. Così, pian piano, durante una lunga passeggiata, la nonna inizia a parlare di argomenti che erano stati sempre evitati in famiglia: i ricordi della propria esperienza come deportata nei campi di concentramento di Auschwitz e Ravensbrück. Sono ricordi tremendi, che fanno un male devastante, ma è giunto il momento per Miriam di condividerli con una persona cara.
“Piano piano le altre donne smisero di parlare. Erano schiacciate le une contro le altre, alcune schiena contro schiena, altre faccia a faccia, e dondolavano un po' a ritmo con i movimenti del treno, ma nessuna rischiava di cadere. Erano troppo ammassate. Alcune rivolgevano il viso verso l'alto succhiando un po' dell'aria acidula e fresca che filtrava dai fori, altre si perdevano con lo sguardo, altre ancora chiudevano gli occhi infossati cercando chiaramente di addormentarsi. Era come se nessuna di loro fosse veramente lì, come se tutte, fino all'ultima, avessero smesso di esistere, come se fossero penetrate in un altro mondo e quel vagone, quel treno, quel viaggio fossero solo un abominevole incubo.”
Ma c'è anche dell'altro: Miriam non è Miriam, non è ebrea in realtà, come ha sempre dichiarato da quando è arrivata, profuga, in Svezia. Miriam in realtà si chiamava Malika una volta, ed era rom. Per un caso, nel campo di concentramento, ha dovuto cambiare identità, ma da quel momento non ha più rivelato alle persone care di essere in realtà rom. I nazisti non preferivano certo gli ebrei, anzi, ma i rom erano emarginati e disprezzati anche dagli altri prigionieri.
“Miriam si girò verso Else guardandola con gli occhi sbarrati, ma lei s'infilò in bocca uno zuccherino e si limitò ad alzare le spalle. «Bah», disse. «Zingari. Si sa come sono fatti, quelli...»”
Inoltre, una volta caduto Hitler ed il nazismo, gli ebrei hanno avuto il rispetto degli altri popoli, mentre i rom sono stati discriminati ancora per tutto il Novecento e lo sono anche oggi. Così Malika ha deciso di diventare Miriam per sempre, ha abbandonato la propria identità culturale, la propria lingua, ha continuato a mentire per una vita intera.
Il libro è veramente toccante, sconvolgente per molti aspetti e ci costringe a riflettere su discriminazione e pregiudizio: tematiche veramente attuali sulle quali vale la pena fermarsi a pensare.
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