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Sulla maledetta strada
Prima di aggiungere il mio contributo a quanto già ampiamente scritto su questo celebre libro precursore della beat generation, mi sono soffermato sulle numerose recensioni precedenti (cosa pericolosissima perché sembra sempre che sia già stato detto tutto). La considerazione che ne consegue: è un libro che ha diviso i lettori. Molti l’hanno detestato, altri ne hanno riconosciuto i meriti e l’importanza. Io mi schiero subito dicendo che appartengo ai secondi, anche se è indubbio che il contenuto e soprattutto il modo di scrivere di Kerouac possano spiazzare e talvolta irritare.
Il tema del viaggio come fuga dalla quotidianità e dall’ingranaggio in cui ci costringe la società è trattato in maniera febbrile, frenetica, a tratti minuziosa e con dei particolari di per sè irrilevanti che il narratore sceglie di includere. Per comprendere questa scelta credo occorra essere stati almeno qualche volta sotto l’effetto di alcool e marijuana, assieme a degli amici. La percezione si amplia e si distorce a dismisura, certi dettagli (un paesaggio, un’ombra, un sorriso, un tono di voce, un colore, perfino un oggetto artificiale) vengono associati a degli stati d’animo, escono dal loro normale e spesso anonimo contesto in cui la nostra coscienza li categorizza ed assumono un significato nuovo, esaltante o deprimente a seconda dell’umore. Ci si stupisce di questo cambiamento rivoluzionario di prospettiva e si è sopraffatti dall’urgenza di cogliere l’attimo fuggente e di comunicarlo il più fedelmente possibile agli amici.
Ed ecco che il vero protagonista del libro Dean Moriarty, amico del narratore Sal Paradiso, che lo segue durante una serie di quattro viaggi attraverso gli Stati Uniti ed il Messico, è un vulcano di sensazioni e aneddoti da esprimere, sviscerare, interpretare, in maniera compulsiva e continuativa, con l’ingenuità e lo stupore di un bambino. Le parti in cui i due inseparabili amici - che sono la trasposizione di Jack Kerouac (Sal) e Neal Cassady (Dean) - si sbronzano o assumono qualche sostanza si dilatano, le pagine si infittiscono e si moltiplicano di dettagli e il lettore è catapultato nelle loro interminabili baldorie nei bar di Denver o nei bordelli messicani.
Concordo con molti recensori che le descrizioni delle pazze notti americane di due ubriaconi possano non suscitare molto interesse, ma trovo che questo stile narrativo, comunque originale e innovativo, metta a nudo in maniera autentica anche l’autore e le sue esperienze.
Ne esce un uomo diviso, solo, alle prese con un passato che non riesce a risolvere. Inizialmente, nel primo viaggio da New York a San Francisco, Sal appare più spensierato ed euforico, incontra e lascia un sacco di amici, con la leggerezza di chi è sicuro di ritrovarli. Ma gradualmente e specialmente nei viaggi successivi, la percezione di se stesso, delle persone che lo circondano e delle loro vite si offusca. La precarietà di un viaggio che assume spesso i connotati di un vagabondaggio, punteggiato da grosse sbornie, che il giorno dopo lasciano soltanto l’amaro in bocca e un senso di inutilità, simboleggia e infine diventa la precarietà della vita stessa. Il viaggio, che doveva essere un modo per evadere dalle miserie della vita lavorativa, diventa la vita autentica dell’uomo, ma l’uomo per mancanza di forza e per la volontà di non omologarsi al sogno americano diventa vagabondo, schiavo della strada ed escluso dalla deprecata società.
E pensare che Kerouac è considerato il padre della beat generation perché ricercava la beat-itudine nell’evasione, nell’alcol e nelle droghe. Invece è morto alcolizzato e a nulla sono valsi i ripetuti tentativi dei suoi compagni di viaggio di salvarlo. Il colpo di grazia probabilmente è stata la morte dell’inseparabile Neal Cassady, morto assiderato sui binari di un treno, quel Dean Moriarty, farabutto e folle, pirata ed asso della strada, papà di molti figli disseminati coast to coast, eterno bambino e sognatore, instancabile parlatore, vagabondo e formidabile bevitore che assieme al più riflessivo e malinconico Sal, ci stanno a testimoniare a quali rischi si va incontro quando ci si incammina su quella maledetta strada.
“Sulla strada” è un’opera estremamente simbolica: è considerata da molti l’inizio di un’epoca, la beat generation, con tutti i movimenti che ne sono derivati, gli hippy, il pacifismo, il ’68, ma vi si può leggere col senno di poi anche il presagio della fine e dell’autodistruzione. Cosa rimane oggi dei Kerouac e dei poeti maledetti? Dove sono i figli dei fiori e quelli che credevano in un mondo migliore? Dove gli studenti filosofi e un pò intellettuali? Dove il popolo di Seattle e i no global? Si sono o li hanno suicidati. Alcuni sono morti di cirrosi o di overdose. Alcuni hanno indossato abiti più eleganti, altri sono entrati in banca, ripudiando l’inutile filosofia. Quasi tutti hanno comprato casa. Molti si sono rincitrulliti con le miniserie e la Playstation, viaggiando non più sulla strada ma comodamente sdraiati sul divano. Alcuni da Seattle sono arrivati a Genova ed hanno visto i black-block e poi non si è visto mai più nessuno. Alcuni sono usciti dal gruppo, ed ancora sperano e pensano, ma da soli, e da soli non contiamo nulla. Forse è il tempo di tornare sulla strada...
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