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"Me contro gli Stati Uniti d'America", oh yes!
«Come l’intera città di Dickens, ero il figlio di mio padre, un prodotto dell’ambiente e nient’altro. Dickens era me. E io ero mio padre. Il problema è che entrambi sono scomparsi dalla mia vita, prima mio padre e poi la mia città natale, e all’improvviso non ho più avuto la minima idea di chi fossi, né di come fare a diventare me stesso » p. 58
Caso 09-2606; “Me contro gli Stati Uniti d’America”, perché c’è sempre un colpevole e/o un innocente, perché c’è sempre un personaggio comodo e/o scomodo. Parte da questo breve assunto l’intero romanzo satira di Paul Beatty dal titolo “Lo schiavista”. Ma di cosa viene accusato questo eclettico protagonista? Semplice, l’americano nero de qua viene ritenuto colpevole di possedere uno schiavo nero. Evidente la contraddizione, il paradosso in termini. Da quando in qua, infatti, una persona di colore in un contesto quale quello noto e descritto dai libri di storia in merito al c.d. Nuovo Mondo, non è una vittima dell’egemonia del bianco ma è, addirittura, un padrone esercente gli stessi diritti di proprietà di questi ultimi e per di più su un soggetto della medesima etnia?
E come non rivedere in questo il Voltaire de “Candide” dove il lettore è invitato ad aprire gli occhi sullo stato reale delle cose mediante la tecnica del rovesciamento del punto di vista, della prospettiva? In pieno stile statunitense l’autore fa proprio questo: con un linguaggio ironico, pungente, sporco (anche troppo, ad esser sinceri) e senza remore rovescia quelle che sono le certezze mostrandone altresì le più disparate sfumature.
Pecca dell’opera è la lunghezza. Se infatti facilmente è possibile riscontrare tratti comuni al “Candide” altrettanto è restarne sfiancati, disarmati, disincantati a causa della eccessiva prolissità della stessa. Il tutto è reso ancora più complesso dall’assenza di una vera e propria trama, di un unico filo conduttore, di una descrizione accurata e precisa sui (e dei) personaggi.
Di conseguenza, quel serio gioco di “dissonanza cognitiva di essere nero e innocente”, che in prima battuta diverte e colpisce, in una seconda, diviene pesante, farraginoso, meccanico tanto che il lettore fatica ad entrare nelle vicende. Altra svista, se così vogliamo definirla, dello scrittore è l’aver involontariamente delimitato il campo di azione dell’elaborato stesso. Mi spiego meglio. I riferimenti culturali e sociali trattati sono fortemente radicati nel contesto americano, ed anche se alcuni sono individuabili con qualche ricerca sul tema, il risultato è che chi appartiene ad un universo estraneo a questo (Europeo o affini) ha difficoltà a coglierne ogni peculiarità, è impossibilitato nell’apprezzarlo interamente. Non è che non vuole, materialmente, non può. Pertanto, “Lo schiavista” finisce con l’essere un romanzo satira americano intelligente ma per americani.
Da detto assunto l’antinomia tra quell’aspetto formale scoppiettante e quell’efficacia circoscritta limitata in termini e portata da un’inefficacia più ampia.
In conclusione, piacevole ma incompleto.
«Una volta, mentre guardavo mio padre alla scrivania che batteva furiosamente sulla tastiera, gli chiesi da dove venissero le sue idee. Lui si voltò e con la bocca impastata di whisky rispose: “La vera domanda non è da dove vengono le idee, ma dove vanno» p. 68