Dettagli Recensione
“Plainsong”
Holt, con le sue campagne piatte e sabbiose, Holt con i suoi boschetti e fattorie isolate su strade sterrate, Holt, luogo di tempo che scorre in un flusso inesorabile del susseguirsi di stagioni e relazioni, Holt e la sua malinconia.
Tom Guthrie, insegnante di storia americana, è solo a crescere Ike e Bobby, rispettivamente di nove e dieci anni. Ella, la moglie, affetta probabilmente da una forma aggressiva di depressione, si abbandona alla sua condizione trasferendosi a Denver dalla sorella. Come ogni mattina, i piccoli, si accingono a consegnare i giornali ai rispettivi destinatari, lavoro al termine del quale si recano a scuola dove le loro strade, temporaneamente si separano. Silenziose e preziose le visite alla signora Stearns.
Victoria Roubideaux, diciassette anni, incinta, cacciata dalla madre alla scoperta del futuro nascituro, trova appoggio prima da Maggie Jones, insegnante della scuola, di poi dai fratelli Mcpheron, Harold e Raymond. Questi ultimi, che hanno vissuto mezzo secolo, hanno perso in tenera età i genitori talché, lasciati gli studi, si sono mantenuti dedicandosi interamente agli animali e ai campi. Il bestiame è tutto ciò che conoscono. Tra i tre si instaurerà un rapporto profondo, di affetto, solidarietà e complementazione. Ciascuno, infatti, con la sua presenza, con i suoi silenzi di parole pensate ma non dette, con i suoi gesti goffi, aiuterà l’altro.
E dallo sviluppo di queste vicende, tra loro intrecciate indissolubilmente, prende vita “Canto della pianura”, capitolo della nota trilogia che semplicemente entra dentro il lettore, lo conquista. Chi già conosce la penna dell’americano, sa bene, come in ogni singolo volume pensato ed ideato dallo stesso, si possa riscontrare, seppur l’ambientazione sia la medesima, un’unicità senza eguali. Ecco perché taluno episodio necessita di essere interpretato e conosciuto singolarmente, individualmente. Non solo, ogni pagina è intrisa di una sua dimensione ove, a prescindere dallo scorrere dei minuti, le difficoltà delle relazioni umane sono le protagoniste indiscusse. Denominatore comune, la solitudine.
In “Plainsong”, titolo originale dell’opera (vi consiglio di leggere le note iniziali relative alla traduzione di questo che letteralmente significa “canto piano”), oltre a detto senso di malinconia e isolamento, che è proprio e riscontrabile anche in “Benedizione”, è presente un carattere ulteriore: l’altruismo, l’accudimento, la generosità, l’aiuto. Tali vite spezzate che sembrano non avere possibilità di rinascita, di riscatto, che cadono nei dolori e che da essi sono condizionate, trovano in piccole azioni, conforto.
Quello narrato è un coro di voci che si innalzano nel cielo descrivendo luoghi, oggetti, anime, vite, esistenze, difficoltà, gioie, lacrime, imprevisti, sorprese, ferite che hanno tempi di degenza lunghissimi, se non irreversibili. Ed è a fronte di tutto ciò che si contrappone questa volontà di darsi una mano, di prodigalità ed umanità gratuite, senza tornaconto. Elementi positivi, che si contrappongono naturalmente ad uno scenario cupo, decadente, nuvoloso.
Lo stile, inoltre adottato, si differenza e peculiarizza rispetto al precedente episodio della serie. Se infatti in “Benedizione” ci trovavamo di fronte ad un linguaggio austero, stringato, caratterizzato quasi nella totalità da dialoghi, in “Canto della pianura” Haruf si lascia andare ad un periodare ampio e articolato, a descrizioni e aggettivazioni quasi barocche. Non mancano i dialoghi, che spesso assumono la veste di monologhi duri e crudi, scanditi dall’assenza di fretta, da una lentezza priva di aspettative. Scelta questa che sicuramente è stata determinata dalla coerenza richiesta dai temi stessi trattati; lì la fine della vita, qui il suo inizio, il desiderio di speranza, di cambiamento. Perché l’uomo può sempre redimersi, imparare dai propri errori, rinascere.
Ed in questa ricerca di condivisione e sentimento, sono presenti anche gli animali. Tre sono i momenti che li vedono quali protagonisti – la cernita delle mucche “vuote”, il parto della giovenca, l’autopsia del cavallo – ; attimi narrati, nella loro violenza, con inquietante accuratezza.
Un testo semplicemente imperdibile, i cui personaggi diventano parte integrante di chi legge, un elaborato dove ognuno sentirà il vento frusciare nella campagne del Colorado.
«Non sarà come fare una scampagnata parrocchiale. No, non lo sarà, disse Raymond. Ma tu alle scampagnate parrocchiali non ci sei mai andato, se non sbaglio» p. 117
«Ma tu cosa vuoi? Replicò. Ormai era alterato anche lui. Non penso che tu lo sappia. Vorrei che lo sapessi, ma non credo sia così. E questo non è che un altro esempio.» p. 120
«Per il bambino. Non pensi che il bambino che stai aspettando un giorno vorrà posare la testa da qualche parte?
Si. Penso di si.
Allora sarà meglio procurargli qualcosa per farlo.
Lei lo guardo e sorrise. E se invece fosse una bambina?
Bé, suppongo che dovremo tenercela comunque. E far buon viso a cattiva sorte, disse Raymond. Fece una faccia esageratamente serie. Ma anche una bambina avrà bisogno di un lettino, no? Alle bambine non viene sonno?» p. 180
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