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Au revoir, Saigon
“Abbiamo atteso a lungo il grande romanzo sulla storia del Vietnam, e ora eccolo, è arrivato.” I Veterani Vietnamiti d’America
Francamente, anche io da qualche anno aspettavo questo libro, dai tempi di un viaggio in Vietnam che mi lasciò con qualche interrogativo di troppo. Di un popolo che, a casa propria, non mi parve ostile ma nemmeno molto accogliente. Chiuso in se stesso, decisamente coriaceo, ben protetto da un carapace inossidabile. Un popolo forte, che alla già tremenda guerra intestina tra Nord e Sud, dovette resistere anche all’incursione statunitense. Una sconfitta clamorosa, l’Agente Arancione e il Napalm non portarono vittoria, senza il supporto del fatidico bottone.
Decenni dopo, una sorta di tensione si avverte ancora, eppure non è semplice trovare una lettura che sezioni la mente vietnamita, dal punto di vista vietnamita. Almeno fino all’incontro con un recentissimo, meritatissimo Pulitzer alla narrativa: Viet Tanh Nguyen.
Sebbene di un romanzo si tratti, chiamarlo romanzo mi è difficile. La sensazione è di sminuirne il peso e l’apporto, perché’ alle spalle della trama di questo sud vietnamita, spia Vietcong infiltrato negli Usa, si cela un testo dal taglio psicologico colossale. Satirico, il lavoro di Nguyen è tragicamente polemico su più fronti. Fortemente su quello americano, spaziando dagli orrori sul campo di battaglia alla realtà successiva alla caduta di Saigon, tra i profughi fuggiti e rifugiati e le manipolazioni Hollywoodiane, alabarda dei perdenti che stavolta scrissero la storia. La critica non sottrae elementi al fronte vietnamita stesso. Ci si chiede, patetici e storditi, ha senso lottare per libertà ed indipendenza imponendo sterminio e tortura?
L’autore, docente universitario a Los Angeles, è un vietnamita d’America, fuggito con la famiglia da Saigon nel 1975 all’età di quattro anni e vissuto per tre anni in un campo profughi in Pennsylvania.
E io ancora fatico a chiamarlo romanzo, perché’ la rabbia di questo libro non è inventata. Perché’ la bella scrittura non è sufficiente a velocizzare lo scorrere della lettura, che ho vissuto in maniera lenta, approfondita, i canini affilati dietro le lenti.
È un libro freddo, dove non si salva nulla se non forse l’amore materno e guarda caso le urla più strazianti, sul campo, sono quelle che i soldati smembrati dalle mine, di qualsiasi fazione, rivolgono sempre e solo a lei, la mamma.
Non c’è calore se non tra le fiamme, non c’è odore se non sotto l’oltraggio di un pesticida, non c’è colore se non in quel mortale scarlatto, non c’è luce se non nell’abbaglio accecante di una cella di rieducazione, non c’è pietà e non c’è perdono. Niente. Niente e’ la chiave di tutto.
C’è che per parlare di una guerra ancora viva in un popolo, non sempre si può premere sulla tastiera del sentimento, talvolta bisogna lasciarsi irrigidire da un vento gelido. La penna e’ esperta, l’analisi competente, le radici ben affondate. Gli spigoli di quella corazza non saranno oggi più dolci di ieri ma arrotondati sì dallo scalpello di un nativo, rispettati ancora di piu’ da una straniera come tante perche’ “ il Vietnam non e’ una guerra, e’ un Paese”.
Au revoir, Saigon.
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Commenti
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Io che lo aspettavo, lo ho trovato soddisfacente. Poi ognuno ha i suoi gusti, ovviamente.
Ciao C
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