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Così va la vita: ineluttabilità del fato...
...e pacifismo velleitario
Ritengo che un primo elemento fondamentale per comprendere appieno la struttura di un romanzo complesso come Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut sia l’inusitata scelta fatta dall’autore per il ruolo di protagonista. Vonnegut infatti era prigioniero di guerra a Dresda, quando gli alleati la rasero al suolo, e ce lo dice nel primo capitolo del libro, sorta di introduzione alla narrazione. L’autore però non narra la storia in prima persona, come sarebbe stato logico, ma ci racconta le vicende di un altro soldato americano, Billy Pilgrim: l’io narrante/Vonnegut, che si inabissa dopo il primo capitolo, riemerge solo in un paio di occasioni durante tutta la narrazione delle avventure di Billy, a ricordarci che anche lui era lì, oltre che nell’ultimo capitolo, dove trae la (non) morale del romanzo.
Perché inventare un personaggio fittizio, un alter ego, da parte di chi avrebbe potuto dare più credibilità alla narrazione conducendola in prima persona? Credo che la risposta a questa domanda non possa essere univoca, dovendosi giocoforza ricercarla in prima battuta nel modo scelto da Vonnegut per scrivere questo romanzo, nel taglio picaresco (tornerò su questo termine) che ha voluto dare alla narrazione di uno degli episodi più tragici della storia del ‘900, il che ha reso oggettivamente arduo un approccio autobiografico. Ma questa non è una risposta, perché apre le porte ad un domanda che rimanda alla prima: perché Vonnegut ha dato questo taglio alla narrazione? Secondo me, alla base di queste scelte dell’autore c’è l’impossibilità (o la mancanza di volontà) di fare realmente i conti con quanto ha vissuto. Come evidenziato giustamente in quarta di copertina dell’edizione che ho letto, la dura ed incancellabile esperienza di morte di cui Vonnegut è stato testimone risulta per lui assolutamente indicibile. Si aggiunga, come ulteriore elemento di indicibilità, che il massacro di Dresda è provocato dalla sua parte, dai buoni della Storia, che infatti si preoccuperanno per molti anni di tenerlo sottotraccia. L’autore ci dice più volte, nel primo capitolo, della sua difficoltà di scrivere questa storia, di come scriverla significhi trasformarsi in una statua di sale per aver osato guardare indietro, di come il romanzo si sia risolto in un disastro, e non potesse essere altrimenti. A Vonnegut quindi sembra non restare, per narrare questa storia che troppo lo ha segnato, che guardarla dall’esterno, attraverso gli occhi di Billy Pilgrim, un bambino (uno dei tanti che furono mandati a questa crociata) goffo e fatalista, la cui filosofia di vita si riassume nella preghiera che è appesa nel suo ufficio di agiato e tranquillo borghese nel dopoguerra:
“Dio mi conceda
la serenità di accettare
le cose che non posso cambiare
il coraggio
di cambiare quelle che posso
e la saggezza
di comprendere sempre
la differenza.”
Vonnegut, inoltre, annega quell’episodio della vita di Pilgrim nel contesto più generale della sua esistenza, facendone uno dei tanti accadimenti inevitabili della sua vita. Subito dopo la lettura della preghiera appesa nell’ufficio, l’autore ci dice infatti che “Tra le cose che Billy non poteva cambiare c’erano il passato, il presente e il futuro.”
Ma c’è di più: per Billy il passato, il presente e il futuro in realtà non esistono, come bene gli spiegano i suoi rapitori Tralfamadoriani: tutto è sempre accaduto, accade e sempre accadrà, e chi veramente vede può vedere tutto come un unico insieme, che inevitabilmente non si svolge ma accade: ecco che allora tutto quello che succede a Billy è posto sullo stesso piano; ecco che allora nel libro gli avvenimenti non possono essere posti in un ordine consequenziale, ma devono essere narrati attraverso salti spazio-temporali casuali, nei quali il tempo viene sovvertito, e il grande e tragico avvenimento storico del quale Billy è testimone assume la stessa importanza ed ineluttabilità di un incidente aereo, della morte della moglie e financo delle sue allucinazioni. Ecco, ancora, che ogni accenno a morti o a fatti tragici nel racconto è chiosato con l’ossessiva ripetizione della frase Così va la vita. Tutto è già scritto, ci dice Vonnegut, e il piccolo uomo non può far nulla per cambiare qualche frase del grande libro degli accadimenti. Il tempo non è che una convenzione adottata dall’uomo per rendere comprensibili avvenimenti che le sue limitate capacità intellettive non sanno interpretare, ma è una convenzione che può condurre a conclusioni sbagliate, come dimostra il fatto (narrato in uno dei passi secondo me più belli del libro) che un film di guerra e distruzione, visto all’incontrario, sembra un film sulla redenzione dell’umanità.
Mattatoio n. 5 non è quindi, a mio avviso, un romanzo che descriva l’orrore del bombardamento di Dresda o più in generale l’orrore della guerra: è un romanzo picaresco, che – rifacendosi soprattutto (anche se non so quanto coscientemente) alla grande tradizione spagnola di questo genere – narra le avventure di un personaggio apparentemente inadeguato, alle prese con il proprio destino, che come alcuni grandi personaggi dei romanzi classici è dotato di una propria peculiare saggezza, derivantegli dalla capacità di incassare e di adattarsi ai colpi del destino. Del resto questa vocazione del protagonista emerge chiaramente, a mio avviso, anche dalla scelta del cognome: chi più del pellegrino trae dalla sua fede la forza per proseguire nel cammino, anche quando le condizioni esterne sono le più avverse?
Se questo modo di Vonnegut di scrivere, di trasfigurare l’avvenimento indicibile di cui è stato testimone in qualcosa di narrabile è forse per l’autore una scelta obbligata, e costituisce indubbiamente uno dei principali elementi di fascino del libro da un punto di vista strettamente narrativo, è a mio avviso anche uno dei suoi maggiori punti di debolezza quando si passi ad analizzarne il contenuto politico.
Non vi è infatti dubbio, a mio avviso, che Mattatoio n. 5 possa essere visto anche come una grande operazione di rimozione. Attraverso la struttura stessa del romanzo, che ho sopra cercato di analizzare, Vonnegut rimuove sostanzialmente il fatto che il bombardamento di Dresda poteva e doveva essere evitato, che si è trattato di un atto di deliberato terrorismo, che solo il fatto che la storia sia stata scritta dai vincitori ha evitato di classificare per quello che è stato: un crimine di guerra. Certo, non mancano nel libro gli accenni critici all’operazione, dal fatto che Dresda sia descritta come una città aperta senza importanza strategica al crudo realismo con il quale Vonnegut descrive le conseguenze del bombardamento, dall’ammirazione per la bellezza della città, la Firenze del nord, sino alla citazione dei rapporti giustificazionisti del dopoguerra. La mia netta sensazione è però che tutto sia sotteso da una ideologia che fa delle guerre e dei massacri una conseguenza (come detto ineluttabile) dell’eterna istintualità umana, contro cui nulla si può: il colloquio che Billy ad un certo punto ha con la sua guida Tralfamadoriana è a mio avviso cruciale per comprendere la tesi di fondo del libro: in buona sostanza vi è affermato che per vivere bene occorre concentrarsi sui momenti belli della vita per goderli, sapendo che quelli brutti ci saranno comunque, indipendentemente dalla nostra volontà. In molti altri passi del libro questa visione è espressa con altrettanta chiarezza: ad esempio nell’episodio dell’incidente aereo. Vonnegut a mio avviso sposa quindi appieno la tesi dell’ineluttabilità del fato, inserendosi in un filone di pensiero antichissimo e nobilissimo, che però spesso è stato la base teorica delle posizioni sociali e politiche più retrive e reazionarie. Non mi aspettavo che un autore statunitense, impregnato della cultura individualista che caratterizza quel paese e che è agevolmente percepibile sin dal costrutto sintattico della sua scrittura, avesse la capacità di trasporre in letteratura una storia che ci aiutasse a comprendere le vere cause della guerra: questo è un compito che probabilmente non può essere assegnato ad alcuno scrittore nordamericano. E’ certo però che – forse come detto a causa dell’eccessivo coinvolgimento emotivo di Vonnegut – la storia di Billy Pilgrim non ci fa fare alcun passo in avanti lungo la strada per sapere perché quel bombardamento fu ordinato, quali erano gli obiettivi (visto che non erano di ordine strategico) sottesi al massacro di 135.000 civili ed alla completa distruzione di una delle più belle città d’Europa. In questo senso mi sento quindi di contestare l’aggettivo di pacifista sempre appioppato a questo libro: se pacifismo c’è, è un pacifismo astratto, basato unicamente sull’emotività e comunque destinato ad essere sempre subalterno alla logica ferrea della guerra, proprio perché incapace di comprenderne le ragioni.
Infatti, se tutto è già scritto, se così va la vita, perché impegnarsi? Cosa rimane da mettere in discussione, da analizzare? L’unica prospettiva è quella soggettiva, che tenti di trarre il meglio dai momenti buoni, aspettando che quelli cattivi passino lasciandoci il più indenni possibile, magari regalandoci anche un diamante che ci possa servire come simbolico anello sul quale fondare la nostra nuova vita. Il buon Billy, su di un carro tra le macerie di Dresda una mattina di maggio, a guerra appena finita, si sentirà di nuovo sereno, e un uccello, dopo tanto tempo, tornerà a cantare per lui. Ciò che ha vissuto gli ha dato una nuova saggezza, che gli permetterà di affrontare il dopoguerra (che peraltro ha già vissuto o sta già vivendo) e le nuove, piccole tragedie che gli riserva.
Il romanzo si conclude, dandogli un verso cronologico, in presa diretta, nel 1968, subito dopo l’assassinio di Martin Luther King e di Robert Kennedy. Anche questi tragici episodi, che hanno sicuramente cambiato la storia degli Stati Uniti e non solo di quella nazione, sono registrati da Vonnegut con leggerezza, con l’immancabile così va la vita, al pari del giornaliero bollettino dei morti in Vietnam. Nulla è cambiato dai tempi di Dresda e della guerra, e nulla potrà cambiare mai, ma sembra che a Vonnegut non importi: in fondo è grato che molti dei momenti della sua vita siano belli. Può tornare a Dresda da turista, ora che ha fatto i soldi, e stupirsi – da buon statunitense – di come siano diverse in generale le cose sotto i comunisti.
Forse a Kurt Vonnegut, in quanto testimone diretto del massacro di Dresda, non si poteva chiedere di più di un romanzo estremamente piacevole da leggere, anche se vengono per contrasto in mente libri come Se questo è un uomo di Primo Levi: sicuramente al Kurt Vonnegut intellettuale si poteva chiedere un romanzo diverso, meno consolatorio e meno funzionale ad un antimilitarismo innocuo e velleitario. Può darsi che qualcuna altro lo abbia scritto, qualcuno come Kilgore Trout, lo sconosciuto scrittore di fantascienza che gioca un ruolo non secondario nel romanzo: non lo sapremo mai, anche perché presumibilmente per una simile opera le porte dell’industria culturale statunitense non si sarebbero aperte con tanta facilità.
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Ti invidio perchè io in questo libro purtroppo non ci ho visto tutto quello che hai saputo cogliere tu.
marta