Dettagli Recensione
Who wants to live foreveeeer?!
Un uomo comune con un lavoro e una vita sociale/sentimentale costellata di piccole soddisfazioni, frustrazioni, smarrimenti viene convocato dal padre, eclettico e visionario supermiliardario, in una località sperduta per assisterlo durante il difficoltoso processo di "ibernazione terapeutica" al quale ha deciso di sottoporsi la sua ultima moglie/compagna a seguito di una malattia incurabile, nella speranza che in futuro, siano dieci, cento, forse addirittura mille anni, la scienza medica si sia talmente evoluta da trovare un rimedio alla penosa condizione in cui versa la sfortunata e, in primis, un metodo sicuro per riportare in vita (si potrebbe dire "scongelare" se non rimandasse un po' troppo ai filetti di merluzzo) il corpo di lei. La vita del "nostro" uomo comune (d’ora in avanti U.C.) da allora cambierà... o forse no, o meglio sì ma soprattutto nel modo che avrà lui di affrontarla, vederla, esaminarla e appunto, viverla.
DeLillo con quello che alcuni hanno definito il suo più bel romanzo dai tempi di Underworld (e altri, sbagliando grossolanamente, il ritardato debutto del gran maestro del post modernismo nella fantascienza. Questa non è un’opera di fantascienza), ci regala un testo introspettivo ed intimo le cui atmosfere crepuscolari e lo stridente contrasto tra il rutilante guazzabuglio di suoni e colori della quotidianità con i lunghi silenzi dell'asettica e ipertecnologica struttura ove avviene il processo di ibernazione, delineano una vicenda il cui surreale, eppur piacevole, incedere strizza l'occhio all' affettata vaghezza del primo Murakami. Ma se nel giapponese il manierismo delle sue opere giovanili è fin troppo evidente, in DeLillo, autore maturo con una precisa conoscenza del proprio mezzo, si perde sfumato nel respiro universale che con maestria conferisce al narrato.
A ben vedere comunque anche un'altra, persino più importante, differenza separa i due autori: se Murakami potrebbe essere definito un “triste ottimista” tale definizione non sarebbe per nulla applicabile per DeLillo, nell' italo-americano infatti è totalmente assente quella pacifica, passiva, volendo ingenua e talvolta irritante, accettazione tipicamente orientale di quel che accade, al contrario qui il suo U.C., superato lo straniamento iniziale di trovarsi coinvolto in una situazione a dir poco assurda, avverte profonda la rabbia e la repulsione nei confronti di quanto è costretto osservare, di quanto suo malgrado è costretto a considerare... e sono una rabbia e una repulsione le sue tipicamente occidentali: sono stoiche, quasi eroiche, sono la r. & r. di chi è fermamente convinto d'essere nel giusto e solo, unico sulla faccia della Terra, lo capisce; sono la r. & r. di chi è costretto a subire cose più grandi di lui, più grandi di chiunque, eppure facendosi forza dei suoi principi individualistici non s'arrende, e combatte, e lotta.
D'accordo, pare dirci l' U.C. di DeLillo, il presente, il mio presente, quello al di fuori di questa silenziosa fredda vasta e desolante struttura ibernante, è un'accozaglia di azioni casuali compiute e subite, talvolta solo osservate, senza un preciso ordine o ragione e questo rendono il vivere incerto, caotico, per certi aspetti spaventoso, mentre qui invece pare tutto cosí ordinato ed organizzato, tutto cosí privo di imperfezioni, al punto che persino quella che è la paura ultima di ogni essere vivente, ovvero la morte, viene, se non sconfitta, diciamo, almeno rimandata a tempi migliori. D’accordo ma.. Ma come diavolo si fa ad affidarsi ad un sistema di valori cosí alternativo, così rivoluzionario da non concepire neppure la morte? Come si fa affidarsi a degli individui, certo, geni visionari, che sono arrivati ad una tale negazione di uno dei principi stessi dell'esistenza da non contemplarla neppure e facendo così indurre decine, centinaia di persone a rifuggire la loro stessa vita preferendo una sorte di lungo sonno, un letargico bozzolo in cui racchiudersi volontariamente per decine d'anni sperando che al loro risveglio saranno, o forse saremo…, tutte belle, delicate innocue ed inermi farfalle? Sarà forse anche vero e scientificamente prodigioso tutto questo ma non sottende in realtà quell'istintivo e supremo rifiuto infantile del bambino che allorché gli accade qualcosa di brutto, si chiude in se stesso serrando occhi ed orecchie? E io dovrei affidare le mie speranze, e non solo quelle per Diana: i miei cari!, a persone così? Io dovrei permettere a loro di insegnarmi, convincermi che questa è la vera vita, la vera soluzione?
No grazie, questi non sono geni visionari, sono furbissimi, intelligentissimi, codardi! No grazie, chi viene qui ha già smesso di combattere, si è già rifiutato di vivere, chi si fa congelare di fatto è già morto! Un codardo morto.
E sono osservazioni sensate (qui parafrasate) quelle del protagonista, giuste, lecite appunto, ma lo sono tanto quanto quelle del padre allorchè decide egli stesso di intraprendere quel cammino: vero, hai ragione, tutto logico, perfetto, ma con l'altra metà della nostra natura, quella che ci rende al pari della ragione esseri umani come la mettiamo? Come la mettiamo con il sentimento? Come la mettiamo con l'istinto? E il dolore e la paura. Come si può farsi forza quando stremati dal dolore sappiamo che l'indomani dovra sorgere ancora il sole? Come ci si può auspicare la presenza di un domani se non è altro che un lento, estenuante rimandare la fine? In fondo quello che facciamo noi qui, l'addormentarci in una tomba di ghiaccio, non è forse quello che fanno tutti gli uomini, con il loro, lento incedere verso la morte? Solo che qui è ancora più lento e forse proprio per questo ancora più coraggioso: la mente umana allorchè si troverà a temperature prossime allo zero assoluto (zero K) cesserà le sue funzioni o rimarrà vigile, attiva ed imprigionata? Ed il corpo avvertirà qualcosa? Avrò freddo vicino allo zero K? Avrò caldo? Domande stupide eppure indispensabili a chiunque stia per affrontare questo passaggio. E non dimentichiamo che anche la sola idea di affrontarlo questo benedetto e maledetto passaggio richiede un atto di fiducia, coraggio e disperazione fuori dal comune. Come puoi giudicare la disperazione d’altri? E la vita, le scelte, la morte… tu ti faresti ibernare, figliolo? E tu lettore?
E anche queste considerazioni (sempre parafrasate) sono quanto mai lecite. Poichè è senza dubbio vero che la morte in qualche modo definisce la vita delimitandola, le da significato spingendoci a lottare per rimandarne la dipartita il più possibile e al contempo sfruttare ogni momento concessoci per dar valore a ciò che siamo e per consentire a chi amiamo che a sua volta possa sfruttare al meglio la sua occasione su questa Terra, ma è altrettanto verò che il lungo sonno è un supremo atto di fede nella vita, nella sua capacità di evolversi e rigenerarsi, un atto di fede nel potere della mente. E se quest' atto di fede non solo è rivolto nei nostri confronti ma anche verso gli altri, se lottiamo allo sfinimento, sfiorando l'imprevedibile e l'irrealizzabile, solo per concedere un altra chance, sia un giorno, un'ora o un secondo in più, a chi amiamo, non è forse esso stesso un gesto coraggioso ed eroico? Loro saranno i precursori; gli ibernati di oggi saranno i primi risvegliati di domani, gli ambasciatori di un remoto passato e I testimoni di un'imprevedibile futuro, potete anche solo immaginarvi quali imprevisti, difficolta e pericoli andranno incontro? Ammesso poi che si risveglino! Non è forse questo coraggio?!
Forse, forse sí e forse no, difficile per noi dare una risposta unitaria a una domanda così profonda e personale, è difficile per noi così come è difficile per DeLillo, poichè tocca le corde più private di ogni essere umano,, tocca le proprie coscienze, il proprio senso morale. Certo è che, si evince alla fine di questo illuminante romanzo, se son fin troppo ovvi i facili giudizi, mai troppo semplice è rivelarne la fallacia. Interessante, per esempio, il punto (purtroppo nel testo appena accennato) della rinuncia alla vita come una sorta di rinuncia alla responsabilità nei confronti dei propri affetti e dei propri cari, come interessante è anche il breve excursus sull’ evoluzione psicologica di chi si trova nella situazione di avere qualcuno in quella fase intermedia tra vita e morte che è il congelamento: con la morte in qualche modo seppur doloroso, vi è l'abbandono e dunque l'accettazione, e il conseguente relief, il sollievo, ma con l'ibernazione? Allorchè sai che quella persona che conoscevi è praticamente morta, eppure non è morta, che in qualche modo c'è sempre eppure non è più lei e non le puoi più parlare o sentirla o toccarla, cosa accade a te? Probabilmente non riesci più abbandonarla, dunque non trovi mai sollievo ed anzi al contrario rischi di farti ossessionare. Ma ancora è così per tutti o solo per alcuni, e in che misura è lecito da parte degli altri giudicare e criticare?
Di nuovo difficile trovare una risposta adeguata che vada bene per chiunque e DeLillo, ben conoscendo gli insidiosi fondali della coscienza, si mantiene sul vago, e anzi ci ricorda che superato un certo limite, oltre un certo ingrandimento, un certo grado di osservazione ed analisi, come in tutte le cose, non si possono trovare risposte ma solo domande, domande che indicano il cammino verso altre domande, ed altre ancora, ed altre ancora...
In fondo è ben questo quel che noi siamo, chiosa lui: viandanti lungo un percorso costellato di domande e di possibili alternative, si tratta solo di scegliere quali porsi e quali no e, come sempre, in base alla propria esperienze e coscienze, qualcuno sceglierà una cosa e qualcun altro il suo opposto. E, figuratevi, ci sarà persino chi deciderà di non scegliere, chi si limiterà ad osservare, ci sarà persino chi invece di guardare direttamente un tramonto gli basterà osservare la reazione che suscita negli altri.
Ebbene sí, questo è l'ultimo romanzo di DeLillo, un DeLillo, nuovo, per certi aspetti più metafisico e relativista, eppure suadente ed affascinante come non mai. E poco conta che alcune (a dir la verità molte) delle tematiche sull'eternità e l'immortalità suoneranno come musica già ascoltata a chiunque abbia passato l'adolescenza a guardare prequel e sequel (non che la serie televisiva) di Highlander e che forse dal gran maestro del post modernismo, come fanno notare alcuni, sarebbe lecito aspettarsi una profondità superiore rispetto a quella palesata da un ideatore di dialoghi da telefilm anni ''90 (per altro gran bel telefilm); e poco conta che i più critici allorché avranno letto o sentito del paragone con Underworld, la sua passata opera di iperrealtà a 120 fotogrammi al secondo, trovandosi alle prese con queste tematiche intime, surreli e vagamente hippy, scuoteranno la tersta pensando a zero K come ad una sorta di prepensionamento di un autore ormai non più nella realtà fattuale del presente (a onor del vero anche il sottoscritto preferisce di gran lunga le opere più concrete del “Gran Maestro”). Questo è un DeLillo nuovo, forse diverso, forse più banale e commerciale, vero, ma anche più intimo, più vicino, più... “amico”; e malgrado i maligni arrivino a suggerire (e non senza fondamento, questo gli va riconosciuto) che ormai è talmente fuori dalla vita di tutti i giorni che ora riesce a scrivere solo di tematiche pseudometafisiche, è bene ricordare a chiunque che DeLillo resta comunque uno scrittore di elevatissimo livello, uno scrittore che anche se per contenuti non riesce piu a raggiungere le vette dei suoi passati capolavori compensa con il suo impareggiabile stile, creando un testo levigato a tal punto (e in zero K accade per davvero) da potersi permettere di gettare tra le pagine una parola qualunque e sapere perfettamente che quattro capitoli dopo il lettore se la ricorderà esattamente, proprio quella, dove è stata usata, perchè e quando. Un autore così sia che descriva un mondo sospeso in un istante per contemplare ogni sfaccettatura del presente, sia che racconti delle trascendentali ed intime sensazioni di un uomo che lambisce appena il reale, meriterà sempre di esser letto. E poco conta infine che zero K possa essere considerata un’opera minore, o per chi avesse creduto agli editori, una mezza delusione: tutte le lecite critiche che gli possano venir mosse e il senso costante di amaro che possa lasciare la lettura di un lavoro poco definito, sono solo deboli appigli per non ammettere che questa è l’ennesima prova di stile di un grande maestro della nerrativa contemporanea, che zero K è un romanzo che, lo si voglia o no, ci riappacifica con la letteratura, la letteratura buona, la letteratura di classe.
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Anch'io vorrei leggere altre recensioni, soprattutto di negative per tentare di definire cosa non mi è piaciuto di questo libro, e qualche cosa c'è ma è difficile oggettivarla
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